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Era mio padre

Se, martedì scorso, qualcuno mi avesse detto che, a distanza di una settimana, ci saremmo trovati qui, in questa situazione, non gli avrei creduto: mio padre era lì, in ospedale, nel letto che ormai gli era diventato casa nelle ultime settimane, a discorrere lucidamente e tenacemente con mia sorella ed il responsabile degli investimenti della banca di cui era socio dei modi migliori per far fruttare i suoi risparmi e quelli della figlia. Esaminando e valutando, dati alla mano, le proposte che gli venivano fatte, seriamente interessato a titoli con scadenza pluriennale. No, davvero: non mi sarei mai aspettato che, due giorni dopo, mia madre ed io l’avremmo assistito nei suoi ultimi momenti di vita, e che ci avrebbe lasciati così repentinamente. E che ora saremmo stati tutti qui, a parlarne in terza persona.

Papà era nato sulle rive del lago di Como. E come quel lago, come molti se non tutti i laghi, era uso alle sorprese repentine: la quieta e tranquilla superficie a volte si increspava, improvvisamente diventava burrasca; ma, come la burrasca, tornava presto a chetarsi, e ad accogliere tutti coloro che volevano navigarla. Lui quietamente e tranquillamente amava vivere, rifuggendo quanto più possibile l’ormai troppo consolidato costume di crearsi nemici a destra e a manca, pacificamente contento di quel che aveva, della sua casa qui in campagna che per molti anni aveva desiderato, del suo giardino e della sua famiglia. Per questo forse poteva apparire un po’ chiuso, all’esterno; ma chi lo conosceva bene, gli amici veri, sapevano che non era certo così; e la presenza qui, oggi, di molti di loro, come i tanti messaggi che ci sono arrivati in questi giorni, sono l’ennesima testimonianza di come fosse una persona che sapeva farsi apprezzare e voler bene. Per la sua serietà, per la sua integrità, per la sua professionalità, per la sua disponibilità. Non ricordo una volta in cui, avendo noi davvero bisogno del suo aiuto, ce l’abbia negato; anzi, a volte era lui stesso ad offrirlo, ancor prima che gli fosse richiesto. Certo, la cosa aveva anche qualche controindicazione, come quando non si riusciva a piantare un chiodo in casa senza che lui arrivasse a curiosare, per vedere cosa stesse succedendo, ed a spiegarti come il martello andasse impugnato in un modo particolare ed il chiodo tenuto in un altro modo; sicuro come il giorno, lo faceva un po’ per diffidenza (dopo tutto, alzi la mano chi non pensa che le cose fatte da soli sono sempre quelle che riescono meglio), ma anche per non sottrarsi alla possibilità di dare una mano. Poi, magari, scompariva quando il lavoro si faceva pesante; ma, a ben pensarci, devo ammettere che non aveva più trent’anni, e che quindi la fatica si faceva sentire prima.

Del resto, durante la sua vita aveva sempre lavorato: sin da quando eravamo piccoli, si era sempre dato da fare per non farci mancare niente. Di lavori ne aveva cambiati un po’, dimostrando grande ecletticità, ma sempre con una costante: il contatto con le persone. Persone che per lui erano e restavano persone, e non individui contraddistinti da qualche etichetta sociale: dal contadino al professore universitario, trattava tutti con la stessa facilità, con la stessa semplicità; e se la rideva se lo chiamavano "dottore", rendendosi conto che non serviva un pezzo di carta per ispirare fiducia o reverenza negli altri. Intendiamoci: ultimamente, non si ammazzava di lavoro, bastandogli quello che facevano lui e Chiara (verso la quale ho un debito enorme, avendomi salvato dalla "successione" lavorativa: papà aveva sempre desiderato che seguissi le sue orme, ma essendo io non attratto dal macinare chilometri in automobile pur di entrare in contatto con clienti e fornitori, la decisione di mia sorella di andare a lavorare con lui mi aveva firmato una specie di lasciapassare... in effetti, a ben pensarci, anche il suo matrimonio con Davide e la nascita dei due nipotini di cui era innamorato hanno distolto un po’ le sue attenzioni da questo figlio venuto su a computer e viaggi, quindi devo esserle doppiamente grato); una sorta di filosofia zen, l’arte di vivere bene senza strafare, che lui completava poi quando arrivava a casa e si dava al suo sport preferito - quello da poltrona, senza favorire alcuna disciplina, si trattasse di sci, calcio, formula uno o altro -, oppure andava a sedersi in riva al laghetto, a dar da mangiare o solo guardare i pesci.

Ah, i pesci... La pesca è stata da sempre una sua grande passione, alla quale si è applicato con zelo ed ottimi risultati - anche a giudicare dalle decine di coppe e medaglie che per anni sono spuntate fuori ad ogni pulizia di primavera,e che sembravano riprodursi in misura proporzionale ai mesi che giacevano dimenticate -; una passione nella quale aveva tentato di coinvolgere anche noi figli, seppure con risultati scarsi o nulli - ed io ho sempre imputato al gran numero di alborelle e persici che ci ha propinato ai pasti quando eravamo giovani la scarsa se non nulla passione per gli stessi ora che siamo adulti. E se non erano pesci, erano funghi: partiva, in montagna, per ore ed ore, sparendo con la sua camicia a scacchi rossi e neri e i suoi pantaloni di velluto, e tornando con il cestino di vimini pieno di funghi - quelli sì,apprezzati da tutti, sia freschi con un filo d’olio che seccati e utilizzati per risotti ed altre meraviglie culinarie.

Chissà che non siano state quelle camminate a trasformarsi, in seguito, nella sua mania di gironzolare per ore nei centri commerciali, nei supermercati, nei grandi magazzini per il bricolage, apparentemente senza meta; tornava spesso a mani vuote - a parte quando si fissava su un oggetto, di cui accumulava poi scorte (abbiamo ancora un armadietto pieno di lampadine a basso consumo, tante che ci potremmo illuminare tutta la pista pedociclabile che prima o poi il Comune speriamo costruirà in via Terminon) -, ma certo faceva più ginnastica lui in quel modo di molti maratoneti della domenica. Gli avessero messo un radiocollare, come si fa con certi animali per osservarne le abitudini,avrebbero potuto seguirne gli spostamenti ed imparare molto sulle disposizioni ottimali delle merci nei negozi.

Eclettico, di grande cultura, gli piaceva interessarsi e discorrere dei più svariati argomenti; e le volte in cui qualche visitatore veniva a trovarci, da qualche paese lontano come gli amici che avevo conosciuto durante i miei viaggi, dimostrava la curiosità ed il desiderio di conoscere, di capire le peculiarità delle loro storie, delle loro culture. Era, un po’, uno strano miscuglio tra Don Camillo e Peppone, due personaggi che amava e i cui film guardava fino a saperli a memoria: a volte burbero, più spesso gioviale, serio e spiritoso, grande da ispirare sicurezza e pronto a combattere, ma anche a concedere. Pronto alla battuta, anche sarcastica (altro tratto di famiglia, che a volte sconcerta persino i parenti più stretti: Davide ci ha messo un po’, ad abituarsi a noi, ma ora ha fatto ottimi progressi...)

Il suo senso dell’umorismo è, come penso si noti, una delle tante cose che mi ha lasciato, insieme con l’altezza (e mi è andata bene: dal lato della famiglia di mia madre non ci sono certo cime svettanti); ma una di quelle per cui gli sono più debitore è l’avermi insegnato, con gli esempi più che con la teoria, il significato di parole come rettitudine ed onestà. Sapete, spesso non è facile fare in modo di non lasciarsi dietro debiti - di qualunque tipo -; ma mio padre amava saldarli tutti, per poter guardare sempre dritto negli occhi i suoi interlocutori. Ed io ho l’impressione di avere (come, del resto, mia sorella) imparato da lui: se c’è da fare qualcosa, non ci si nasconde dietro un dito, ma ci si sporca le mani; e non si approfitta degli altri, ma si agisce onestamente con tutti. Magari, mi si dirà, siamo rimasti in pochi a farlo, al giorno d’oggi; non per questo la cosa vale di meno, ed io sono contento di potermi guardare allo specchio, la sera. E lo devo a lui.

Anzi, a te, papà. Smetto di parlare di te in terza persona, perchà voglio dirti che ci mancherai, a noi tutti: alla mamma, a noi figli e nipotastri che chi più chi meno ti abbiamo fatto dannare un pochettino, ai parenti che non ti sei scelto ma che hai amato e con i quali hai passato tanti momenti belli, e agli amici che invece hai scelto dimostrando, quanto meno, buon gusto. Ci mancherai perché sei stato una persona speciale, e hai dato tanto a tutti, rendendoci un po’ speciali di riflesso. Io di mio sono stato fortunato ad esserti figlio, e sono fiero di portare il tuo cognome. E ti prometto che faremo di tutto per non dimenticare i tuoi insegnamenti, e per farti onore.

Buon Cammino.


Commenti

Il giorno 11/04/2010, Daniela Sartori ha scritto:
Ho letto solo ora...mi dispiace molto, hai ragione fagli onore Daniela

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inserita il 09/03/2010
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