Sono arrivato da un paio d’ore a Città del Messico, dopo un volo discretamente lungo con scalo a Madrid. Per fortuna, il volo intercontinentale aveva un bel po’ di posti vuoti, così ho potuto stendermi su quattro sedili e, mascherato come e più di Zorro, dormire abbastanza comodamente (dico abbastanza perché non vorrei che si pensasse che non si possa dormire meglio sul pavimento, dove però c’è sempre il rischio di essere calpestati...).

L’arrivo sopra l’enorme città (più di 20 milioni di persone, a quanto pare), nella mattina ancora lontana dal sorgere del sole, è stato immaginifico come una di quelle foto che si vedono ogni tanto, scattate da satelliti o da astronauti, della Terra: nero, nero paciocco, con macchie di luci qui e là, a volte grandi, a volte piccole, che dal finestrino dell’aereo non capivi quante case ci dovessero essere perché non sapevi a che altezza stavi volando in quel momento (i monitor trasmettevano un film a cartoni animati di Superman).

Le macchie si son fatte via via sempre più grandi, come meduse fosforescenti che si approssimavano, finché non si sono fuse in un ammasso enorme su cui, lentamente, è sorto il sole messicano.