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Hampi, imprevisto del percorso

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Questa cosa del prendere una mappa, segnarci tutti i posti che potrebbero interessarmi e, poi, decidere lungo il percorso se connettere i puntini oppure saltarne o aggiungerne qualcuno mi piace, anche se ci vuole un po' di adattabilità. Mi piace perché alla fine funziona, e perché permette a volte di incontrare persone e/o luoghi inaspettati.

Hampi è uno di quelli: l'idea era di spostarsi a sud, una volta visitata Goa, ma alla fine consigli di altri viaggiatori e immagini bellissime mi han convinto a prendere un altro treno e puntare ad est.

Arrivo a Hospet dopo 6 ore di viaggio, e da lì prendo un tuk tuk per la mia destinazione finale; prima, però, passo dalla stazione dei bus, per acquistare un biglietto per la prossima destinazione, dato che per qualche oscuro motivo il sito web della compagnia di trasporto non da alcuna connessione per i prossimi giorni (mentre io so, per averle scovate su altri siti, che ci sono varie partenze giornaliere; il bigliettaio mi da ragione, e così tutto è predisposto).

Hampi è una località divisa in due dai meandri di un fiume: su un lato, dove trovo facilmente alloggio in una delle tante camere date in affitto dalla gente locale, stanno quelli che cercano di seguire quanto più fedelmente possibile i dettami della religione; sull'altro stanno i fricchettoni, e i turisti che credono che la felicità stia nella possibilità di bere birra e fumare erba tutte le volte che vogliono. Quella, tra parentesi, è secondo me la parte da evitare in tutti i luoghi turistici, e non per il consumo di sostanze più o meno nocive, quanto perché è quanto di più lontano dalla vita locale che si possa trovare; ed venirsene in India, così come in ogni altro posto, per trovare le cose che si hanno a casa è, un po', uno spreco di denaro e di tempo; soprattutto, di tempo.

Sul mio lato, mentre la padrona di casa si siede alla macchina da cucire per mettere insieme dei pantaloni, e il marito spignatta preparando vari manicaretti, le donne disegnano geometriche figure beneaugurali con una pastina di riso che, almeno in teoria, dovrebbe servire a sfamare anche i più umili degli insetti, nel rispetto per la Natura di cui la religione induista è pregna, e le mucche passeggiano lentamente in su e in giù per la strada, fermandosi ogni tanto a guardare il resto del mondo che si affanna certo più di loro. Il grante tempio Virupaksha, con le sue due alte torri da cui risuonano musiche ipnotiche, è anche dopo il tramonto un brulicare di fedeli e di curiosi, che lasciano le loro calzature all'ingresso ed entrano per farsi dare una benedizione o per osservare, come faccio io, le scimmie giocare e arrampicarsi per ogni dove. Suoni, colori, odori mi scorrono intorno, senza affrettarsi, ed io siedo e li osservo.

Dedico tutto il secondo giorno a visitare la parte sacra e la parte reale di quella che, nel secolo XIV, era stata la capitale dell'impero Telugu, cresciuto per due secoli fino a diventare uno dei più grande della storia indiana; una capitale che raggiunse facilmente i cinquecentomila abitanti, e che fu centro di prosperosi commerci internazionali, fino a quando venne razziata da una alleanza dei suoi nemici, nel 1565, e non si risollevò più. Ciò che resta, oggi, sono quasi 4000 monumenti in varie condizioni, giustamente inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO. E scelgo di girare a piedi, invece che in bicicletta o in motorino come paiono fare tutti, perché credo che le cose vadano assorbite dopo la visita, senza trasformarle in una corsa contro il tempo. Mi arrampico perciò sulle pendici rocciose dietro il grande tempio, dove vari templi più piccoli sono stati costruita da gli enormi massi di cui è ricca l'area, e osservo lo spettacolo che, probabilmente, il principe Harihararaya vedeva sette secoli fa. Più in basso mi aspetta una enorme statua del benevolente Ganesha, il dio dalla testa di elefante, e decide di ragazzi e ragazze in gita scolastica che non possono esimersi dallo scattarsi un selfie con me. La strada è sabbiosa e la giornata è calda, ma gli alberi offrono spesso protezione e, quando serve, c'è sempre qualcuno pronto a vendere un succo di canna da zucchero o una soda al limone, quindi cammino e cammino senza problemi, la macchina fotografica al collo e il bottiglione d'acqua nello zainetto.

Forse i due pezzi migliori che vedo sono la grande statua di Lakshimi Narasmiha, dagli occhi sporgenti come il miglior Marty Feldman, e i Bagni della Regina, un'anonima costruzione che rivela al suo interno uno stupendo porticato in stile indo-islamico intorno alla vasca un tempo piena d'acqua. Ma trovo interessante anche la zona del palazzo reale, dove tra l'altro resistono in buone condizioni una piramide a tre livelli alta una dozzina di metri e una enorme vasca, probabilmente il serbatoio d'acqua per tutti gli edifici circostanti, i cui fianchi sono scalinate per permettere agli uomini di scendere fino alla superficie.

Un giorno intero ci vuole, e alla fine sono stanco e salto su un bus locale che mi porta, per la folle cifra di 16 rupie (20 centesimi di euro) al punto di partenza, dove mi lavo, faccio un salto al tempio Virupaksha a godermi il tramonto e poi ceno in un ristorante deliziosamente vuoto - sono in anticipo di almeno mezz'ora sul resto dei turisti.

Il mattino dopo, mi alzo quasi di buon'ora per precipitarmi giù al fiume dove, oltre a molti abitanti del luogo, si lava (anzi, viene lavato dal suo custode) l'elefante del tempio. Non credo di aver mai visto un animale godersi così passivamente una strigliata nell'acqua, è ovvio che la cosa va avanti da molti anni; la proboscide è l'unica parte che continua a muoversi, non paga di rimanere in una posizione, e quando sbuca dall'acqua mentre il pachiderma è steso su un fianco pare proprio il periscopio di un sottomarino. Al termine della cerimonia, salgo su una barchetta a motore e attraverso il fiume, scoprendo l'altra faccia di Hampi, dove i turisti vengono cullati a suon di lezioni di yoga, campane tibetane, motociclette in affitto e quant'altro. Io tiro dritto, incamminandomi lungo le risaie, e poi arrampicandomi nella zona dei grandi massi rotondeggianti che paiono essere la cifra del paesaggio, qui intorno: la mia meta è il santuario dedicato ad Hanuman, lo spirito dalle fattezze di scimmia che, si dice, aiutò Rama a liberare e recuperare sua moglie Sita in Sri Lanka. Le scimmi le incontro già dall'altra parte dell'altipiano roccioso, son lì che mi guardano curiose tra i rami degli alberi; ma è solo quando arrivo in cima alla lunga scalinata che porta al santuario che ne trovo decine... e mi rendo conto di aver ancora nello zainetto le bananine acquistate la sera prima da una signora... brutta cosa, trovarsi circondato da scimmie che non hanno paura degli esseri umani, con delle banane nello zaino. Con attenzione, mi godo un po' il panorama, poi visito il tempio, ma alla fine decido che è più salutare allontanarsi, ergo ridiscendo. E poi cammino, e cammino, e cammino. Sembrano migliaia i chilometri, in realtà è il sole che batte davvero forte che fa stancare più facilmente. Per fortuna, di tanto in tanto si incontra qualcuno che vende del succo di canna da zucchero, o un albero che regala un po' d'ombra. 

Arrivo di nuovo al fiume, lo riattraverso su un'altra barchetta e, dopo qualche altro centinaio di metri, sono al Vitthala, uno dei più grandiosi esempi dell'arte e della architettura religiosa dell'impero Vijanagar. Ma ho finito i soldi che ho portato con me, e qui vorrebbero farmi pagare 600 rupie per l'ingresso (i locali ne pagano 40!), quindi mi tocca vederlo da fuori il grande muro che lo circonda. A onor del vero, credo di aver raggiunto comunque il livello di saturazione da templi, quindi non mi dispiaccio troppo, e mi incammino di nuovo verso casuccia, attraversando una valle costellata di - indovinate un po'?! - altri templi, senza quasi incontrare anima viva.

Reincontro i due giovani sudcoreani che alloggiano nel mio stesso luogo, e ci fermiamo a parlare con loro ed altri indiani che si uniscono a noi davanti ad una tazza di té e dell'acqua fresca. E fresca è anche la conversazione, parliamo di cose diverse, di come stiamo vedendo l'India, e di come la vedono coloro che ci abitano. Ceniamo assieme con dei deliziosi momo (ravioli nepalesi), non prima di aver fatto un altro salto al Virupaksha per salutare l'elefante e le scimmie, e essermi goduto un altro spettacolare tramonto. Poi prendo il bus locale, raggiungo Hospet e, dopo averlo atteso per 40 minuti buoni oltre l'orario di partenza, salgo sul bus che mi porterà a Misore, mi accoccolo nella mia cuccetta piccola e stretta (qui è quando uno rimpiange di non essere più basso, e di aver prenotato la prima cuccetta del corridoio) e mi addormento.


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inserito il 21/01/2019
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