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L'arte che brilla
Lasciata Rio, mi sono addentrato per alcuni giorni nello Stato di Minas Gerais, per visitare località che sono state rese celebri in passato dalle molte miniere di oro, argento e pietre preziose (in primis, diamanti) e che ora sono meta di esplorazione da parte di chi, lontano dalle metropoli della costa, voglia ammirare i tesori dell'arte religiosa e gustare della calma di paesini ammantati dalle nebbie mattutine e della deliziosa cucina "mineira".
La prima tappa, Ouro Preto ("Oro nero"), mi fa incontrare col milanese Edoardo e con due ragaze tedesche, e insieme visitamo le chiese stupendamente addobbate con statue prodotte da un tale Antonio Francisco Lisboa, detto Aleijadinho perché una infermità gli fece perdere le dita di mani e piedi e lui fu costretto a farsi legare martello e scalpello alle braccia per poter continuare a lavorare. E che lavoro: il suo trasformare il barocco portoghese in qualcosa di personale, di nuovo, con i volti delle figure enormemente più umanizzati di quanto mai abbia visto in altri luoghi lo ha reso celebre, e gli ha fatto sfornare un capolavoro dopo l'altro. Chiese che sberluccicano per le coperture in pan di oro, dove le statue sembrano prendere vita... E poi ci sono le miniere, come quelle di Chico Rei che era un re africano per davvero condotto qui in schiavitù con tutta la sua tribù e che lavoró giorno e notte per affrancare sè ed i suoi, finendo per acquistare la miniera; o quella "de Passagem", dove per mezzo di un vagone con sedili di legno ti calano giù a qualche centinaio di metri di profondità e scopri tunnel tanto grandi che potrebbe passarci un autobus e un lago dalle acque cristalline in cui io mi metto a sguazzare per qualche minuto (brrr!). Ouro Preto è un continuo andare su e giù per strade ripide, tutta la cittadina è costruita su colline, l'altitudine non è eccessiva ma le nebbie e il cielo plumbeo continuo fanno presagire un clima differente da quello della costa...
Mentre attendo il bus con Edoardo per raggiungere Belo Horizonte, incontro Francisco, lo spagnolo conosciuto nel Pantanal e venuto poi con me a Campo Grande: ha trascorso due mesi visitando lentamente in Nord-Est, ed ora sta scendendo a sud... decididiamo di proseguire per qualche giorno assieme, e da Belo Horizonte prendiamo il primo bus per Diamantina.
Altra città costruita con molti sali e pochi scendi, Diamantina ci offre qualche chiesa ed un paio di musei (quello del diamante, peró, lo visito solo io, perché gli altri due sono rimasti delusi dalla casa di Chica da Silva, mulatta schiava resa ricca e libera dal suo amante proprietario di miniera); le chiese, in realtà, sono sempre stupende, sempre dorate, e quelle che godono quel tocco in più di Aleijadinho si pongono sul gradino più alto del podio. Proviamo la cucina tipica (che, curiosamente, prevede polenta e salsiccia oltre ai soliti fagiolate, polli e yuca fritta), deliziosamente corroborante, e visitiamo l'inutile mercato artigianale, dove pochi venditori si guardano tristemente l'un con l'altro, ascoltando (o subendo) la musica del chitarrista Paco. Paco si trasforma in un tormentone per noi, urliamo il suo nome a squarciagola, lo filmiamo e nei giorni successivi lo citiamo spesso (a proposito ma più che altro a sproposito).
Ritorniamo a Belo Horizonte, e scopriamo il motivo di questo nome: la gente guarda l'orizzonte aspettando il momento di andarsene da questa grande, grigia, ininteressante città. I due unici punti forti della nostra visita sono lo stadio coperto Mineirão (il secondo per grandezza nel mondo, apparentemente), dove cerchiamo invano tracce di un giocatore che piaceva tanto al padre di Edoardo, e il quartiere di Pampulha, dove l'architetto Niemeyer (da noi ribattezzato Nureiev, perché più facile da ricordare) creó tutta una serie di edifici nello stile che avrebbe poi fatto furore durante la costruzione di Brasilia; il tutto, sponsorizzato dall'allora governatore e poi Presidente brasiliano Juscelino Kubitscheck, il JK nazionale.
Ultima tappa (senza Edoardo, partito alla volta di Salvador) è Sao Joao del Rei, anch'essa dotata della sua scorta di chiese ma in realtà punto utile di partenza per visitare Tiradentes, un paesino di nove strade e otto chiese (o erano otto strade e nove chiese? non ricordo più...). Tiradentes è tranquillissimo, il flusso turistico è solo del finesettimana quando la locomotiva Maria Fumaça porta i suoi vagoni carichi di persone da Sao Joao, e arrampicandoci lungo le strade acciottolate vediamo quanto possiamo prima che si scateni un diluvio (l'ennesimo: non c'è stato un giorno completo di sole, qui in Minas Gerais, da quando vi abbiamo messo piede). Francisco riparte nella notte, io resto un giorno in più a Sao Joao per visitarla ma, soprattuto, per tirare un pò il fiato, prima di ritornare a Sao Paulo.
La prima tappa, Ouro Preto ("Oro nero"), mi fa incontrare col milanese Edoardo e con due ragaze tedesche, e insieme visitamo le chiese stupendamente addobbate con statue prodotte da un tale Antonio Francisco Lisboa, detto Aleijadinho perché una infermità gli fece perdere le dita di mani e piedi e lui fu costretto a farsi legare martello e scalpello alle braccia per poter continuare a lavorare. E che lavoro: il suo trasformare il barocco portoghese in qualcosa di personale, di nuovo, con i volti delle figure enormemente più umanizzati di quanto mai abbia visto in altri luoghi lo ha reso celebre, e gli ha fatto sfornare un capolavoro dopo l'altro. Chiese che sberluccicano per le coperture in pan di oro, dove le statue sembrano prendere vita... E poi ci sono le miniere, come quelle di Chico Rei che era un re africano per davvero condotto qui in schiavitù con tutta la sua tribù e che lavoró giorno e notte per affrancare sè ed i suoi, finendo per acquistare la miniera; o quella "de Passagem", dove per mezzo di un vagone con sedili di legno ti calano giù a qualche centinaio di metri di profondità e scopri tunnel tanto grandi che potrebbe passarci un autobus e un lago dalle acque cristalline in cui io mi metto a sguazzare per qualche minuto (brrr!). Ouro Preto è un continuo andare su e giù per strade ripide, tutta la cittadina è costruita su colline, l'altitudine non è eccessiva ma le nebbie e il cielo plumbeo continuo fanno presagire un clima differente da quello della costa...
Mentre attendo il bus con Edoardo per raggiungere Belo Horizonte, incontro Francisco, lo spagnolo conosciuto nel Pantanal e venuto poi con me a Campo Grande: ha trascorso due mesi visitando lentamente in Nord-Est, ed ora sta scendendo a sud... decididiamo di proseguire per qualche giorno assieme, e da Belo Horizonte prendiamo il primo bus per Diamantina.
Altra città costruita con molti sali e pochi scendi, Diamantina ci offre qualche chiesa ed un paio di musei (quello del diamante, peró, lo visito solo io, perché gli altri due sono rimasti delusi dalla casa di Chica da Silva, mulatta schiava resa ricca e libera dal suo amante proprietario di miniera); le chiese, in realtà, sono sempre stupende, sempre dorate, e quelle che godono quel tocco in più di Aleijadinho si pongono sul gradino più alto del podio. Proviamo la cucina tipica (che, curiosamente, prevede polenta e salsiccia oltre ai soliti fagiolate, polli e yuca fritta), deliziosamente corroborante, e visitiamo l'inutile mercato artigianale, dove pochi venditori si guardano tristemente l'un con l'altro, ascoltando (o subendo) la musica del chitarrista Paco. Paco si trasforma in un tormentone per noi, urliamo il suo nome a squarciagola, lo filmiamo e nei giorni successivi lo citiamo spesso (a proposito ma più che altro a sproposito).
Ritorniamo a Belo Horizonte, e scopriamo il motivo di questo nome: la gente guarda l'orizzonte aspettando il momento di andarsene da questa grande, grigia, ininteressante città. I due unici punti forti della nostra visita sono lo stadio coperto Mineirão (il secondo per grandezza nel mondo, apparentemente), dove cerchiamo invano tracce di un giocatore che piaceva tanto al padre di Edoardo, e il quartiere di Pampulha, dove l'architetto Niemeyer (da noi ribattezzato Nureiev, perché più facile da ricordare) creó tutta una serie di edifici nello stile che avrebbe poi fatto furore durante la costruzione di Brasilia; il tutto, sponsorizzato dall'allora governatore e poi Presidente brasiliano Juscelino Kubitscheck, il JK nazionale.
Ultima tappa (senza Edoardo, partito alla volta di Salvador) è Sao Joao del Rei, anch'essa dotata della sua scorta di chiese ma in realtà punto utile di partenza per visitare Tiradentes, un paesino di nove strade e otto chiese (o erano otto strade e nove chiese? non ricordo più...). Tiradentes è tranquillissimo, il flusso turistico è solo del finesettimana quando la locomotiva Maria Fumaça porta i suoi vagoni carichi di persone da Sao Joao, e arrampicandoci lungo le strade acciottolate vediamo quanto possiamo prima che si scateni un diluvio (l'ennesimo: non c'è stato un giorno completo di sole, qui in Minas Gerais, da quando vi abbiamo messo piede). Francisco riparte nella notte, io resto un giorno in più a Sao Joao per visitarla ma, soprattuto, per tirare un pò il fiato, prima di ritornare a Sao Paulo.
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inserito il 08/03/2006
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