Who are you?
Secondo punto sul mio mappone, a 6 ore di treno da Mumbai, Aurangabad è un luogo abbastanza utile per visitare due siti storico-archeologici di enorme importanza: Ellora ed Ajanta.
Il treno scorre lungo campagne e cittadine che ho già visto in altri luoghi in altri tempi, ché dopo un po' si assomigliano tutte, e io ne approfitto per fare conversazione con qualcuno degli altri viaggiatori seduti sugli scomodamente piccoli (almeno per me) sedili di questo vagone seconda classe. Due famiglie, in particolare, stanno accompagnando i rispettivi figli ad un torneo di tae-kwon-do, e sono molto incuriosite da quel che penso del loro paese; gli dico che ci sono stato troppo poco per essermi formato una qualche idea, e anzi ne approfitto per chiedere spiegazioni su quel che ho visto e su quel che ci accade intorno. Nel frattempo, venditori di cibo e bevande continuano a passare, e di certo qui non si muore di fame; e se si dovesse morire, c'è pure la possibilità di farsi benedire, quando un ermafrodita passa e, in cambio di un'offerta, ti scaccia di dosso gli spiriti cattivi con una rumorosa battuta delle mani.
Arrivato ad Aurangabad, auguro ogni bene ai piccoli atleti e salgo su un tuk-tuk, quei tricicli a motore che qui chiamano "auto-rickshaw" e raggiungo la casa del mio ospite, un couchsurfer di nome Kanhay. In realtà, non è la casa dove vive, ma un luogo che ha preso in affitto per trasformarlo in un ostello. Gli ambienti sono enormemente spaziosi oppure ridicolmente piccoli, le rifiniture in certi punti sono sfarzose ma sicuramente poco funzionali (gli interruttori del bagno si trovano a 2 metri dalla porta... nella stanza precedente!), il giardino in una zona polverosa è praticamente assente, le porte non hanno chiavi ma chiavistelli con enormi lucchetti e, quindi, non si possono aprire che o dall'interno o dall'esterno... Kanhay mi dice che son tutte così, che agli indiani piacciono così, ma io continuo a non essere convinto che un ostello a qualche chilometro dal centro città (e dalla stazione dei treni, e da quella degli autobus) e su una strada che non porta a qualche luogo interessante sia una scelta particolarmente logica. A lui comunque i soldi non mancano, assieme a suo padre gestisce già una specie di campeggio/resort di successo fuori città, e sembra anche sapere il fatto suo, quindi non m'impiccio più di tanto e ringrazio per l'ospitalità.
Dopo aver pranzato con lui e la sua fidanzata, veniamo raggiunti da un paio di altri couchsurfer, un giovane chirurgo locale ed un americano arrivato in India per partecipare ad un matrimonio e poi rimasto per girare, senza averlo fatto tanto (quando passi la giornata alzandoti tardi e poi fumando spinelli e bevendo whisky direi che non sei il candidato ideale a "viaggiatore dell'anno"), e tutti assieme raggiungiamo il resort, dove in teoria doveva esserci una specie di festa e campeggio notturno per gli interessati; io forse avrei dovuto dire di no, ma mi pareva offensivo nei confronti del mio ospite e così ci sono andato. Interessanti conversazioni, specie con il chirurgo, ma per il resto una perdita di tempo, ché di festa non c'è l'ombra, e veniamo raggiunti da altri cinque tipi di cui uno è un iraniano scroccone, due sono dei tedeschi poco interessati nella vita in generale (o, semplicemente, stanchi) e gli altri due sono un ragazzo di Mumbai (che si dice disponibile ad ospitarmi... un po' tardi ora, grazie lo stesso!) ed un poliziotto. Ecco, il poliziotto lo salverei, parla un inglese smozzicato ma è simpatico, beve un po' anche lui e quindi non bada più di tanto al fatto che gli altri si rollano gli spinelli (ufficialmente vietati in India), e si offre di riaccompagnarmi a casa verso mezzanotte mentre gli altri restano a campeggiare; certo, va talmente piano per la strada (perché ha bevuto, mi dice) che ad un certo punto veniamo sorpassati da due capre zoppe e io vorrei togliergli il volante dalle mani, ma almeno mi racconta interessanti aneddoti sulla sua professione, prima come agente del traffico ed ora come membro di una unità cinofila.
Il piano per il giorno successivo è che l'americano ed un altro indiano, partiti in taxi dal camping, passino a recuperarmi e poi assieme si vada ad Ajanta, a circa 2 ore e mezza di strada. Alle 7:30. Quando alle 8 non vedo comparire nessuno, contatto il mio ospite che, dopo una attenta ma non rapida verifica, mi conferma che stanno ancora dormendo. Un'imprecazione verso metà del pantheon induista accoglie la notizia. Cambio programma al volo, ché ormai è tardi per andare ad Ajanta, e prendo un tut tuk per la stazione dei bus, da cui salto su un mezzo per Ellora, a circa 30 minuti di distanza. Nel sito, uno dei più importanti dell'India, anche se molto simile a qualcosa che avevo visto in Cina, durante secoli monaci buddisti e, poi, presi da spirito di imitazione, religiosi induisti e giainisti, hanno scavato monasteri in una lunga parete di roccia. Alcuni di essi sono estremamente spartani, solo caverne squadrate con pilastri, ma altri sono estremamente rifiniti e decorati in modo delizioso, scavati a mano con martello e scalpello da devoti di varie religioni che facevano a gara per creare qualcosa di più bello degli altri, senza però con questo andare a danneggiare quanto fatto dai loro predecessori (e qui sta uno dei misteri dell'India, capace in passato e in molte sue parti di una pacifica convivenza interreligiosa). Il migliore, senza ombra di dubbio, è quello denominato "numero 16": un intero tempio a più piani, ricavato all'interno di uno spazio liberato dalla roccia, e circondato da vari porticati. Tutti, tra l'altro, costruiti dall'alto in basso, con precisione incredibile, similmente a quanto fatto dai Nabatei nella zona di Petra, in Giordania. Ci ho passato cinque ore, nel sito, gustando ogni singolo dettaglio; i locali, invece, lo visitano un po' più di fretta, più interessati a farsi selfie ovunque che a quello che effettivamente appare come sfondo nelle foto. A meno che non si trattasse dello straniero di turno (io, in questo caso): allora si facevano in quattro per scattarsi una, due, tre foto con me, spesso approcciandomi con le due uniche frasi che sembravano conoscere: "who are you?" e "what's your country?"; frasi alle quali mi limitavo a sorridere ebeticamente, o a rispondere a caso (completamente inutile farlo con precisione, come scoprii anni fa in Sri Lanka, perché non conducono ad alcuna conversazione, dato che si tratta di frasi svincolate da una reale conoscenza della lingua). Uniche eccezioni, una classe di ragazze che evidentemente volevano far pratica di inglese, e le due famiglie conosciute sul treno il giorno prima, in cui mi imbatto casualmente.
Serata con il gruppo di couchsurfing (compreso l'americano che dice di aver incaricato un altro tipo di inviarmi un messaggio per avvisarmi che non sarebbero arrivati, quella mattina... "ma va' a dar via i ciapp'", come si dice in indiano braminico), ma senza far tardi, ché l'indomani mi aspetta una levataccia.
La sveglia suona all'alba delle 4:45, ma ignoro il suo messaggio per il primo quarto d'ora; poi però mi lavo alla bell'e'meglio, di controvoglia (ma non era una vacanza, questa?!), e mi incammino verso la strada principale, per prendere un tuk tuk fino alla stazione dei bus, dove salgo al volo su un bus per Ajanta. 3 ore di strada in gran parte in (ri)costruzione, con i suoi sbalzi e sbalzelli, e polveri neanche tanto sottili. Poi, finalmente, arrivo. Il sito ha appena aperto, ed è cosa assai buona, perché le grandi torme di turisti della domenica non sono ancora arrivate, ed io posso dedicarmi a scrutare ed osservare e studiare ognuna delle singole pitture che riempiono le grotte. È, questa, la grossa differenza con Ellora: là la parte di roccia, meno scoscesa, aveva permesso di cesellare capolavori architettonici, mentre qua i veri tesori sono nelle decorazioni, con pitture che hanno resistito al passaggio dei secoli. Tutto oscuro, e non si possono usare né flash né cavalletto (anche se nessuno dice niente sul mio piccolo tripode portatile), quindi l'assenza di folle aiuta nelle prime due-tre grotte, forse le più belle, dove passo un sacco di tempo; poi, l'onda umana mi raggiunge, e tutto si fa un po' più difficile, ma si tratta di nuovo del popolo dei selfie, e basta un poca di pazienza e si ottiene il risultato.
Ne esco, vivo, intorno alle 15, e dopo un pranzetto rapido in uno dei ristorantini vicini all'uscita vado a prendere il bus per tornare. Che passa, ma pieno. E così restiamo giù io ed altri sei, tra turisti e locali, e ogni locale adotta un turista e ci fa salire sul bus successivo che non torna ad Aurangabad ma si ferma prima e così dobbiamo cambiare e non siamo i soli e c'è l'assalto alla diligenza con gente che "prenota" i posti appoggiandovi un fazzolettro attraverso il finestrino aperto e... morale della favola: mi faccio l'ultima ora di viaggio in piedi, di nuovo sulla strada sbalzellon sbalzelloni polverosa. E quando arrivo al futuro ostello, l'acqua calda non esce dalla doccia e così vai di acqua fredda. I miei ospiti tornano per salutarmi e recuperare le chiavi, io salgo su un ultimo tuk tuk per la stazione e poi inizio il viaggio in treno verso Goa.
Val la pena di evitare i finesettimana, potendolo, per visitare questi luoghi: gli indiani hanno un biglietto di ingresso ridottissimo, e ne approfittano per farci la scampagnata "culturale" al sabato e alla domenica; inoltre, arrivano sul tardi, tipo verso le 11, quindi un ingresso mattiniero facilita la visita.
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inserito il 13/01/2019
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