Ad Arequipa, sulle tracce di suore, alpaca e, soprattutto, condor
Seconda tappa del viaggione dell'anno, come lo definiscono ormai tutti i social-cosi, è la dama bianca del Perù, quell'Arequipa che si chiama così perché, pare, il Sapa Inca rispose ai suoi che - stanchi per il lungo camminare - volevano fermarsi, "ari quipà" (ovvero, "restatevene pure lì, figli di un dio sole minore").
Noi ci passiamo per alcuni ottimi motivi, tutti di bellezza: la bellezza della città stessa, tutta costruita con la pietra vulcanica bianca, detta sillar; la bellezza del convento di Santa Catalina, vero labirinto di celle e viottoli costruito secoli fa per contenervi le monache di clausura; la bellezza di una trilogia di carni al ristorante Zig-Zag, dove ti servono su una scottante pietra vulcanica un pezzo di carne di maiale, uno di manzo ed uno di alpaca, e mentre questi continuano a cuocere e a schizzare il tuo bavaglino tu puoi farti un'idea di quello che ti piace di più (per me è una lotta quasi alla pari tra gli ultimi due, il maiale arriva solo terzo); e la bellezza del volo dei condor, che qui in Perù non si vedono così di frequente se non nei pressi del canyon del Colca, uno dei più profondi del mondo.
La Casa del Melgar ci accoglie per la notte, enorme e antica, con i suoi giardinetti e patii pieni di piante e fiore, di uccelli, di colori, dopo un volo mattutino da Lima e un pomeriggio passato ad esplorare il convento, il negozio di lana di alpaca Michel (che mia madre ha puntato subito, ovviamente) e il punto panoramico di Yanahuara, da cui si gode la vista del vulcano Misti, incorniciato da dei deliziosi archi in pietra. Solo una notte, però, ché il mattino dopo saliamo con altri turisti su un autobus che, alla guida di Luis, e con il commento sporadico e un po' disincantato di Herman, ci porta fino a Chivay, valicando un passo a 4800 metri di altitudine, che a noi fanno quasi un baffo. A Chivay andiamo a visitare le terme, nella cui acqua caliente si può nuotare, e poi una serata a cena con gran parte del resto del gruppo, allietata da uno spettacolo di musica (buona) e danze (meno buone) locali.
Grazie all'intercessione di Luis, che nel frattempo ha scoperto che faccio il tour leader, ottengo la cena gratis (non che ci facessi conto: sono in vacanza e non al lavoro, dopo tutto), anche se avrei potuto avere un più cospicuo sconto sul biglietto che fanno pagare all'ingresso della valle (70 PEN, mica paglie!), mi dice... vabbé, mi farò più furbo la prossima volta. Investo quindi una parte del denaro risparmiato in mance per gli artisti, che non ne sono affatto scontenti.
Dopo una notte passata in un hotel carino, con tante piccole stanze separate ma caratterizzate da un importante ed indispensabile elemento (il termosifone), il bus ci passa a prendere all'alba delle 6:15, per raggiungere in tempo la Cruz del Condor, il promontorio da cui si possono osservare giovani condor salire in cerchi dalle profondità del canyon, seguendo le correnti calde ascensionali. Lo fanno ogni giorno, più o meno alla stessa ora, e gli umani lo sanno, e per questo li attendono al varco, per godere del loro librarsi maestoso, o più prosaicamente per farsi un selfie con il cellulare infilzato su uno di quei bastoni telescopici che vanno tanto di moda oggigiorno. I condor, ovviamente, impassibili fanno i loro comodi.
Lo spettacolo, delizioso come sempre, termina dopo un'oretta e mezza, o quanto meno termina per noi: risaliti sul bus, è tempo di tornare indietro, facendo un altro paio di soste lungo la strada, per arrivare a Chivay dove pranziamo. E dove, per botta di fondoschiena notevole, assistiamo pure, nella piazza principale, ad una sfilata religiosa, con tanto di personaggi mascherati che danzano, prete che benedice, portatori che scarrozzano in giro i palchetti con su le madonne e polizia che, come al solito, vigila vigile.
Il ritorno verso Arequipa è un continuo tentativo di dormire, anche perché poi, dopo un paio di ore, ci aspetta un altro viaggio, più lungo, fino a Cusco, la capitale Inca.
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inserito il 01/09/2015
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