E l'efante?
Sono quattro giorni che siamo in Uganda, ed ho già fotografato più animali di quelli che ha visto Piero Angela in tutta la sua vita... beh, forse, no, ma era per rendere l’idea...
Dopo aver lasciato Kampala, abbiamo viaggiato per circa tre ore per poi arrivare al Ziwa Rhino Sanctuary, dove si sta cercando di riportare la popolazione di rinoceronti bianchi ai minimi necessari per tentare la reintroduzione nei parchi nazionali, dopo che la loro presenza era stata cancellata dai bracconieri alla ricerca dei corni, mitici afrodisiaci per dementi cinesi. I rinoceronti lì si sentono tranquilli, tanto è vero che dormicchiano oziosi per quasi tutto il giorno, specie durante le ore calde; ed è sdraiati sotto gli alberi che li troviamo, e ci avviciniamo tanto che li sentiamo sbuffare (e pure scoreggiare, ma tanto nessuno gli dice niente, credetemi!). Sono magnifici, possenti, corazzati, con le orecchie a cono che si muovono al minimo rumore dimostrando che saranno pure oziosi ma non certo disattenti a quel che gli capita intorno.
Li salutiamo, e ci riavviamo verso il parco nazionale più grande del paese, quello di Murchison Falls; lungo la strada, salviamo da morte certa un camaleonte che attraversava flemmatico la striscia d’asfalto, peraltro non mimetizzandosi con la stessa. Lo prendo in mano, lo faccio salire sul mio braccio, e lui con quelle zampette che si ritrova con due dita da una parte e due dalla parte opposta comincia a risalire lentamente, due passi avanti ed uno indietro, finché non mi raggiunge il collo che addenta più per paura che per tentare di mangiarmi. E tutti a fotografarci, e lui che non cambia colore, e io che poi lo stacco lentamente e lo riporto al sicuro lontano dalla strada... solo quando siamo ripartiti, mi son reso conto che era dalla parte da cui aveva iniziato l’attraversamento... chissà le imprecazioni del povero camaleonte!
Nel parco stiamo in un campeggio, lo Yebo Camp, all’interno di capanne tipiche, le banda, dal tetto di canne e paglia e le pareti fatte di mattoni di argilla, cotti in enormi forni che quasi ogni casa lungo la strada sembra avere. Il campeggio è carino, semplice, ma disorganizzato al massimo, tanto che quando arriviamo ci scambiano per un altro gruppo e ci vorrebbero piazzare in una grande tenda condivisa. La prontezza di spirito mia e dell’autista ci salva, e ci prendiamo le nostre quattro capanne. La cena non è niente di speciale, uguale per tutti e servita da delle signore, forse le cuoche, in abiti più colorati di quello a cui mi stavo abituando; il dopocena, invece, è rallegrato dalle musiche allegre anche se ripetitive e dalle danze attorno al fuoco di un gruppo locale che gira di lodge in lodge ogni giorno proponendo il proprio spettacolo e poi la sera viene sempre allo Yebo Camp.
Al mattino, safari. E qui la macchina fotografica, gentilmente prestata da Chiara e Davide (più Chiara che Davide, a dire il vero... mi sa che dovrò portargli una buona immagine per farmi perdonare di avergliela portata via per due settimane), si mette in moto. Il furgone guidato da Hassan ha il tettuccio telescopico apribile, e noi attraversato il Nilo su un rumoroso traghetto diesel ci troviamo in paradiso... Avete presente la scena di Jurassic Park, all’inizio dell’esplorazione, quando gli scienziati eccitati svoltano l’angolo e, insieme agli spettatori, si trovano davanti per la prima volta i dinosauri? Ecco, succede anche a noi, quando dopo aver percorso una strada per alcuni chilometri senza vedere niente tranne erba (tanta) ed alberi (pochi) avvistiamo le prime antilopi (chiamate Kob, dalle corna lunghe e ritorte), una famiglia di iene che si allontana velocemente, svariate giraffe che camminano o brucano a varia altezza sugli alberi, facoceri che non cantano "Hakuna Matata", bufali d’acqua che sembrano pettinati con la riga in mezzo, ippopotami col sedere fuori dall’acqua, ancora antilopi, altre giraffe, coccodrilli, uccelli di tutti i colori e dimensioni...
Ci capita di avvistare un elefante, o meglio parte di un elefante, con l’orecchio sinistro e un pezzo della schiena che fanno capolino da dei cespugli; ma dell’animale terrestre più grande del mondo è tutto quello che vediamo, perché la stagione delle piogge si è protratta più a lungo del solito e quindi l’abbondanza di cibo ha fatto sì che si spargano in giro per tutto il parco, e che qui rimanga solo quest’esemplare, probabilmente ammalato ed abbandonato dal resto del branco (begli amici...)
Niente zebre, che qui non ci sono, e niente leoni, che invece ci sono ma probabilmente sono a sonnecchiare da qualche parte dopo una nottata di lavoro. Ma non siamo delusi, ché ci siamo riempiti gli occhi ed il cuore con quel che ci ha proposto la giornata.
Al pomeriggio, dopo aver fatto un picnic senza riattraversare il grande fiume per non perdere tempo, picnic allietato dalla presenza di tre facoceri che arrivano incuriositi dalla nostra presenza e poi si danno alle loro pratiche amorose mentre noi facciamo da involontari spettatori, e aver atteso assieme ad una famigliola di babbuini che anche loro sembravano non aver alcuna paura di noi ed alcun ritegno per le loro azioni (che qui non narrerò perché ci possono essere dei bambini alla lettura), saliamo sulla grande imbarcazione che ci porta a navigare sul Nilo, controcorrente, fino alle cascate Murchison, che danno il nome al parco. Stupende e poderose, con spruzzi d’acqua incredibili, fanno da ottimo sfondo alle visioni delle altre decine di animali che incontriamo lungo le sponde del più lungo fiume del mondo.
Una giornata fe-no-me-na-le, e il viaggio è appena cominciato...
Lo Yebo Camp non merita di essere pubblicizzato oltre, almeno fino a che non cominceranno a gestirlo meglio...
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inserito il 20/07/2013
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