Due artisti, una passione sola: il popolo
Nelle ultime settimane, mi è capitato di imbattermi nelle opere di due artisti, a mio parere importanti per i paesi in cui hanno operato; sta poi al gusto di ognuno dire se siano stati grandi o meno.
Il primo, George Selarón, cileno, si era trasferito negli anni '80 a Rio de Janeiro, andando a vivere in una casetta nel quartiere di Lapa, lungo la scalinata che portava al Convento di Santa Teresa nell’omonimo quartiere. Una scalinata bruttina, come molte delle scalinate che si trovano a Rio de Janeiro, o se è per questo in tante città sudamericane. Una scalinata che Selarón tentò di migliorare, installandovi delle vasche da bagno che furono poi decorate con delle piastrelle e utilizzate come fioriere. Ma fu nel 1994, quando gli abitanti locali dipinsero sui muri i colori della bandiera brasiliana in omaggio alla vittoria del mondiale di calcio (con la famosa finale contro l’Italia, che perdemmo grazie agli errori ai rigori di Baggio e Baresi), che l’artista cileno iniziò un’opera che non avrebbe più terminato, ricoprendo lentamente la scalinata di piastrelle colorate; dapprima recuperandole nelle discariche, poi acquistandole, infine ricevendone a centinaia da ogni parte del mondo. Finanziava il suo incessante lavoro vendendo quadri e ceramiche, che nel frattempo aveva appreso a creare, e lo si poteva incontrare spesso al lavoro sulla sua opera, con gli inconfondibili baffoni da tricheco e l’altrettanto inconfondibile pancia a malapena nascosta dalle magliette che indossava. Un po’ burbero, ma più spesso incline a salutare i tanti turisti che, negli ultimi anni, sempre più numerosi affrontavano i 215 gradini della sua scalinata alla ricerca di piastrelle curiose, magari dalla loro nazione o città (io non ne ho ancora trovata una di Vicenza, ma in compenso qualcuna di Padova e di altre località italiane sì).
George Selarón è stato trovato morto, un giorno di gennaio, sulla scalinata che amava tanto, forse suicida, forse ucciso da un collaboratore con il quale aveva avuto problemi di recente. Con lui se ne è andato uno spirito bizzarro, che ha amato il popolo brasiliano tanto da dedicargli un’orgia di colore nel grigiore dei quartieri poveri.
Il secondo si chiamava Oswaldo Guayasamìn, ed è stato forse il maggior pittore dell’Ecuador. Famoso per i suoi ritratti, che si erano ben presto liberati delle influenze cubiste di Picasso ed altri artisti ancor più celebri, era figlio di madre meticcia e di padre indigeno; nonostante l’opposizione di quest’ultimo, aveva frequentato la Scuola di Belle Arti di Quito, per poi viaggiare in vari paesi delle americhe, conoscendo tra gli altri Orozco e Neruda, e trovando in tutti i paesi una civiltà indigena oppressa; un tema, questo, che, da allora, apparirà sempre nelle sue opere, che riflettono il dolore e la miseria che sopporta la maggior parte dell’umanità e denunciano la violenza che ha dovuto vivere l’uomo in un XX secolo segnato da guerre mondiali, guerre civili, genocidi, campi di concentramento, torture e dittature.
A Quito, ma in tutto l’Ecuador, copie delle sue opere sono onnipresenti, specialmente quelle della serie "la tenerezza" (ce n’è una appesa anche in casa mia, stampata da una foto fatta in qualche strada di questo paese). Riconoscibilissime, con quelle grandi facce tondeggianti, le dita delle mani nodose, i corpi spesso messi a nudo, i colori molto forti. Molta gente le ama, nonostante non amasse lui, perché non riusciva a capire come qualcuno che non era indigeno (ma lui invece lo era, il suo nome stesso significa "uccello bianco in volo") potesse parlare per gli indigeni, e come qualcuno che si dichiarava comunista (o, almeno, socialista) potesse accumulare tanto denaro vendendo le sue opere. Nonostante questo, e forse anche un po’ per questo, Guayasamìn volle regalare alla sua città ed al suo paese una testimonianza particolare, e nel 1996 iniziò a progettare e costruire quella che sarebbe stata poi nota come "capilla del hombre" (cappella dell’uomo), uno spazio espositivo all’interno del quale inserì sapientemente alcune delle sue opere, dedicando il tutto all’essere umano, ed in particolare a tutto il popolo dell’America Latina, come un invito alla sua unità, dal Messico alla Patagonia.
Guayasamìn morì nel 1999, ma il suo sogno, così come la fiamma eterna che vi arde, vivono ancora.
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inserito il 02/02/2013
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