Cronache della colecisti, episodio 8: batti sul tempo il coronavirus
L'11 marzo è finalmente arrivato, e di buon'ora mi sveglio per andare a Vicenza a fare le analisi del sangue. Lungo la Riviera Berica ci sono poche auto, ma non mi pare che tutti se ne stiano a casa; inoltre, non vedo pattuglie delle forze dell'ordine a fare i tanto sbandierati controlli, magari si stanno ancora organizzando.
Arrivo all'ospedale un quarto d'ora prima dell'appuntamento, un'inserviente mascherata mi da un biglietto con un numero dicendomi che così entro ancora prima; di nuovo, non c'è molta gente, sulle sedie un posto ogni due ha un cartello che invita a sedersi ad un metro di distanza dagli altri, ma se gli altri non ci sono che si fa, come lo misuri questo benedetto metro?
Con questo dubbio amletico entro, un'infermiera cortesissima mi spilla sangue senza che quasi me ne accorga, poi mi mette una garza per tamponare il nuovo buco e mi augura buona giornata. "Buona giornata a voi, e grazie", ché gli operatori sanitari se la stanno meritando, la gratitudine, di questi tempi.
Torno all'auto, parcheggiata davanti ad un supermercato, e da questa posizione privilegiata osservo il mondo: niente code, niente gente impazzita con i carrelli pieni di rotoli di carta igienica, solo due "mori" che attendono lungo la rampa di ingresso anziani da aiutare in cambio di una mancia, e qualche vecchiotto che parcheggia un po' alla "viva il parroco" ed entra lentamente con il sacchettone verde di tela.
Arriva l'ora della visita di controllo, la dottoressa mi dice che sto benissimo, mi chiede se voglio attendere qualche mese per l'operazione dati "i tempi difficili che stiamo passando", io le faccio presente che sono già in lista d'attesa e che mi han già fatto tutte le visite necessarie. "Ah, già, è vero" dice, dopo aver dato un altro sguardo al monitor, e aggiunge che probabilmente avverrà a Noventa e che mi daranno qualche giorno di preavviso.
Saluto, ed esco a passeggiare verso il centro. Lungo la strada incontro poche persone, tutti cercano di camminare ad una certa distanza dagli altri, io cambio addirittura marciapiede quando vedo più di una persona che mi viene incontro. Dove Contrà Porti incrocia Corso Palladio una violinista è seduta, suonando con un tono forse un po' troppo spento l'Ave Maria di Schubert; l'ascolto per un po', poi scendo fino a Piazza dei Signori e mi siedo sui gradini del Palazzo del Capitanio, di nuovo guardando quei pochi che passano. Ci sono dei bambini sui monopattini, qualcuno porta a spasso il cane, l'immancabile cafona parla in vivavoce al telefono convinta che a tutto il mondo interessi dei suoi affari; su un lato, alcune persone stan prendendo l'aperitivo sedute ai tavolini all'aperto di un bar. Non so se definirla resilienza o incoscienza, forse un mix di tutte e due le cose, l'ennesima dimostrazione che siamo diversi dai cinesi e che a noi non si riuscirebbe ad imporre le stesse regole di pubblica utilità che là, per il momento almeno, sembrano aver confinato il virus. Squilla il telefono, ed è l'ospedale: mi dicono che si è liberato un posto, e che mi ricovererebbero già oggi pomeriggio. "Può venire per le 14?" "Mi spiace, ma è troppo presto", rispondo (alla faccia del preavviso di un paio di giorni!): devo trovare il modo di riportare la macchina a casa, prima. "Va bene, allora facciamo per le quattro o le cinque di oggi pomeriggio" "Perfetto, grazie". Elena dice, quando la informo: "Bravo, così batti sul tempo il coronavirus", e forse ha ragione.
Vado a pranzo con l'amica Valentina, è la sua ultima mezza giornata di lavoro prima delle ferie obbligatorie; al ristorante le persone si siedono a tavoli diversi, in posizioni alterne, e le inservienti passano il disinfettante ogni volta che qualcuno si alza. Servirà? Boh, a me serve la bontà di una tranquilla conversazione, il resto si vedrà.
Torno a casa, aggiungo un paio di cose alla borsa che avevo già preparato (forse, con senso premonitorio) questa mattina, verifico i progressi di mia madre con il suo tablet (le sto insegnando le nozioni base, per il momento direi che se la sta cavando bene ma parte svantaggiata dalla avversione alla tecnologia che scorre forte nella sua famiglia - mio nonno Nino ne era l'esempio assoluto), saluto il nipotame e poi Chiara mi riaccompagna in ospedale. Di nuovo, la strada è abbastanza sgombra e arriviamo puntuali alle quattro e mezza; salutiamo un coniglio nero nell'aiuola all'ingresso del Pronto Soccorso (ché venerdì scorso, quando ho portato Anna e Marco a fare una visita guidata di Vicenza, li abbiamo cercati per ore senza successo), poi entriamo, ma Chiara si deve fermare alla porta del reparto di chirurgia, dove un cartello e la voce del citofono ci dicono che nessun visitatore è più ammesso.
Dentro, la sorpresa: Amilzare è ancora qui, sta camminando per il corridoio con un sacchetto, mi saluta, e cinque minuti dopo mi ritrovo nella stessa stanza, la famigerata numero 2, nel letto che era stato di Bronco. Lui l'hanno dimesso già da alcuni giorni, mentre Immobile è stato rilasciato mezz'ora prima del mio arrivo; "l'hai perso per un soffio", mi dice, ed io ripenso al suo ultimo soffio e tiro un sospiro di sollievo. Nel "mio" letto c'è invece Shallow, un giovane siciliano che si è schiantato in bicicletta sulla ciclabile vicino a Castegnero spappolandosi la milza; è giovane, sta tutto il tempo attaccato al cellulare, non prende le medicine che gli passano gli infermieri e non sa neppure che Vecchioni e la Morte si sono incontrati a Samarcanda. Il quarto letto è libero, e sono tutti sollevati perché non ce la facevano più col russare di Immobile. Amilzare mi aggiorna sul suo stato di salute, non ce la fa più a stare rinchiuso qua dentro (non dimenticate che voleva uscire già il giorno dopo l'operazione!), però i suoi drenaggi hanno bisogno di continua pulizia e i medici ritengono sia più sicuro per lui non andare e venire continuamente dall'ospedale (saggia considerazione, visto quel che succede fuori).
Comincio a leggere un altro libro (sarebbe il terzo per quest'anno, un record inarrivabile fino a qualche tempo fa), mentre la zanzara che c'era 10 giorni fa si sfrega le zampe al pensiero del mio sangue e comincia a risvolazzare per la stanza. Arriva la cena, i miei centri di salivazione pavloviana si attivano all'udire il carrello ma la fregatura è in agguato: solo un bicchiere di brodo, per me. Ci vogliono tutte le mie arti diplomatiche per ottenere un bis, che per fortuna arriva, se no comincerei a mordere gli arredi della stanza.
Un'assistente mi rade i pochi peli dalla pancia, poi mi spiega come disinfettarmi domani mattina dopo aver fatto la doccia per preparami all'operazione; mi consegna un paio di calze antitrombosi, modello Giuditta, e il camice che sarà l'unico indumento che dovrò indossare, chiuso davanti ed aperto dietro (praticamente, l'esatto contrario di un impermeabile da pervertito).
Notte tranquilla, mattina sonnolenta passata nel digiuno più completo e dedicata solo a scrivere queste mie memorie e a rassettarmi in vista dell'appuntamento col chirurgo. L'operazione verrà fatta in linea di massima in laparoscopia, ovvero con l'apertura di qualche buchetto sull'addome per introdurre tubi con videocamere, luci, bisturi e aspiracistifellee; ovviamente, nel caso ci fossero complicazioni, sono sempre disponibili la sega circolare per aprirmi rapidamente e il Folletto per tirar via tutto rapidamente, ma io sono ottimista e so che non ve ne sarà bisogno. E mi addormenteranno, ovviamente, auspicabilmente fino al termine dell'operazione (a ben pensarci, sarebbe un ottimo tema per un film horror: il paziente di un'operazione chirurgica che si risveglia durante la stessa... brrr, non voglio neppure pensarci). Ergo, ci risentiamo tra un po'...
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inserita il 12/03/2020
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