Quello è Mazzini, che cavolo!
Dopo quattro giorni di fila di bel tempo, doveva pur capitarne almeno uno così così. E, puntuali, le nuvole sono arrivate. Così, quasi al termine di un minitour di 5 giorni (in realtà, il pretrip per un altro tour francese più lungo, che non accompagnerò io), ho proposto alla parte del gruppo che non si era già organizzata per andarsene per contro proprio a Genova di venire con me a scoprire Chiavari.
Scoprire, sì, perché io a Chiavari non c'ero mai stato prima. Qualcuno magari storcerà il naso, ma dopo tutto io sono solo un accompagnatore turistico, e non una guida, e quindi non correvo il rischio di fare brutta figura per mancanza di materiale illustrativo. Un'avventura, quindi, ovviamente preparata al meglio possibile, passando un paio d'ore ieri sera a studiare la mappa della città, le informazioni che si trovano in rete, e gli appunti che avevo preso durante una conversazione con l'ottimo Lucio Levi, uno dei più esperti PD di Grand Circle in circolazione, genovese dall'aspetto babbonatalizio con una cultura e conoscenza enorme, oltre che di un buon senso dell'umorismo.
E così, stamattina, con nove altri esploratori, abbiamo salutato le ragazze della reception dell'hotel e abbiamo attraversato la strada per raggiungere la fermata dell'autobus. Una breve attesa, poi un'altrettanto breve corsa fino alla stazione, dove abbiamo trovato (grazie ai sempre utili ritardi di Trenitalia) un treno semivuoto pronto a condurci a Chiavari.
Arrivati, dando le spalle al mare ci siamo addentrati nel parco antistante la stazione, per poi deviare a destra ed entrare nella grande basilica (nonché cattedrale) di Nostra Signora dell'Orto. La quale non è la vostra vicina quando va a raccogliere i pomodori e le tegoline, bensì una delle molteplici apparizioni della Madonna (nel senso di moglie di Giuseppe e padre di Gesù), questa volta avvenuta appunto nella zona in cui un tempo si trovavano gli orti della città. Imponente, ed estremamente simile al Pantheon di Roma, tanto che viene d'istinto cercare il grande oculo che, in questo caso, è chiuso da una lanterna seminascosta da dei teli.
Questione di pochi minuti, e comincia la messa, quindi noi ci accomiatiamo rispettosi della sacralità del posto e attraversiamo la piazza, portando i nostri rispetti alla statua del re Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia e sovrano galantuomo - per quanto forse Giuseppe Garibaldi non sottoscriverebbe, visto il tiro che gli fece il Savoia regalando la sua Nizza ai francesi.
Ci intrufoliamo per un attimo anche nel grande Palazzo Bianco, sede del Municipio, e poi ci dirigiamo per una stradina laterale fino a raggiungere la piazza dedicata al figlio più illustre della città: Giuseppe Mazzini.
L'ispiratore dell'unità d'Italia forse non sarebbe contento di sapere che la piazza a lui dedicata in realtà la conoscono tutti come Piazza del Cavolo, a causa del mercato che vi si tiene ogni giorno; ma, impaludato come sempre nei suoi abiti neri, frutto della malinconia che gli causò leggere le Ultime Lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, tiene in mano un libro e sembra indicare la via da seguire, lontano ("Vadi, ragioniere, vadi...")
Il mercato, dicevo. Deliziosamente interessante per i miei nove americani, che si perdono tra le bancherelle incuriositi da ortaggi che non vedono quasi mai nella loro patria (due tra tutti: i porri, e i fiori delle zucchine), ammaliati dai venditori che - da bravi imbanditori - gli fanno assaggiare questo e quello pur di convincerli all'acquisto. Ed ecco allora che pacchi di trofie, lattine di olio extra vergine, scatolette di olive, tranci di pecorino e persino un sacchetto di scamorzine affumicate si accumulano nei loro zaini e sacchetti, perché alla fin fine è un piacere girare senza doversi continuamente guardare le spalle dai borseggiatori come, invece, avevamo dovuto fare ieri alle Cinque Terre.
Ripartiamo, e percorriamo i lunghi portici medievali, dove sia in passato che ora si son sempre concentrate (soprattutto nei "bassi" delle case e dei palazzi) le maggiori attività legate alla produzione artigianale e "di bottega". Arrivati ad un'altra piazza e ad un altro padre della patria, il summenzionato Giuseppone nazionale, infiliamo una strada parallela alla prima e giungiamo infine in piazza Fenice, dove individuiamo subito il posto dove pranzeremo, frutto di un'altra dritta di Lucio: Luchin.
Luchin è un vezzeggiativo, un nomignolo; ché il ristorante lo aprì Luca Bonino, nel 1907, rilevando un vecchio forno e preparando la tipica farinata, proposta assieme ad un quartino di vino e alla possibilità, per i tanti lavoratori che affluivano ogni giorno a Chiavari, di scaldare la gamella. E, proprio quando siamo arrivati noi, il cuoco stava preparando una nuova farinata: il liquido impasto biancastro di farina di ceci, sale, olio e acqua viene rovesciato all'interno di una teglia gigante preventivamente cosparsa di olio, che viene poi inserita in un forno a legna simile a quello per le pizze ma dall'imboccatura ovviamente più larga e più bassa. Una quindicina di minuti, e la farinata, giallastra e rassodata, esce, pronta ad essere divorata. Cosa che noi, ovviamente, abbiamo fatto, facendole seguire dei buoni piatti di minestrone di verdure e (qualcuno più affamato) trofie al pesto e persino un bel bisteccone di manzo.
Sazi, felici per il sole tornato a splendere e ancora pieni dei dettagli di questa bella esperienza, abbiamo poi ripreso la via della stazione, per tornarcene all'hotel. Tutti contenti.
Nel sito dell'Antica Osteria Luchin, http://luchin.it/, si trova pure un filmato che spiega come fare la tradizionale farinata.
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inserito il 20/05/2015
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