La tranquillità di Momo
Ripresomi dalla pur dura avventura vulcanica (tra scalata e discesa, per non parlare della notte quasi all’addiaccio, varie parti del mio corpo hanno deciso per una manifestazione di protesta richiedendo una mezza giornata di ozio quasi completo), ho dedicato un paio di giorni all’esplorazione di Xela e dei dintorni.
Scartata l’ipotesi di andare a visitare le terme, anche per motivi strettamente economici (lo so, son solo 5 euri; però, i soldi guatemaltechi ormai scarseggiano, e non ho voglia di andare a fare un altro prelievo per pochi spiccioli e solo per un paio di giorni) ma non solo, prendo invece un bus che mi porta fino all’inizio della strada per Viejo Palmar, e poi da lì un pick-up che mi deposita nel bel mezzo del (quasi) niente: anni fa, una valanga di fango e ceneri causata dall’ennesima eruzione del Santiaguito investì in pieno questo piccolo villaggio, portandosene via la gran parte e lasciando un canyon che sembra un’enorme cicatrice a perenne ricordo. Molte persone morirono, molti edifici furono spazzati via, alcuni - come la chiesa - furono divisi in due dal canyon ed ora sono solo rovine, con la foresta che cerca di riappropriarsi della zona. La chiamano la "Pompei del Guatemala", anche se di Pompei ha ben poco, perché qui tutto non fu sotterrato, ma soltanto dislocato o distrutto. Molti dei sopravvissuti ora vivono in un villaggio a qualche chilometro, Nuevo Palmar, ma tornano ancora qui per lavorare, perché è qui che hanno i campi o le fette di bosco dove tagliano la legna che poi si caricano sulla schiena con le solite fasce poste sulla fronte e portano fino alla fermata dei pick-up, che li trasporteranno poi al mercato dove la legna si vende bene, molti la usano per cucinare: il gas costa di più.
Ritornando, vedo che le terme stavano di strada, ma ormai ho deciso e poi il tempo è estremamente nuvoloso, minaccia pioggia... Visito perciò il centro di Xela, cominciando dal parco dedicato a Benito Juarez (un messicano!) e dalle chiese dai bizzarri altari che la circondano, proseguendo poi per i vari isolati che compongono il mercato della Démocrazia e arrivando infine al teatro municipale, di cui ho intravisto uno scorcio l’altro giorno, mentre un suonatore di marimba; purtroppo, oggi è tutto sprangato, quindi mi limito a guardarlo dall’esterno. All’angolo c’è un venditore di pizza al taglio, rpovo la mia fortuna con una fetta agli spinaci... mmm, non so se davvero siano spinaci, ma non è granché; comunque, calma la fame, almeno per un po’. Ho più fortuna nella piazza principale, attorno alla quale alcuni operai stanno dipingendo le strisce pedonali con una vernice blu che spero serva a coprirle, e dove si trovano tutti i principali edifici, compresa la nuova cattedrale con, a qualche metro di distanza, la facciata della vecchia, a quanto pare salvata all’ultimo momento dai religiosi che si opposero alla sua demolizione, demolizione invece messa in atto per il resto della vecchia chiesa, ferocemente danneggiata da un qualche sisma o eruzione vulcanica (ormai qua si sovrappongono, ne ho perso il conto). Intorno, si stan cominciando ad allestire le bancherelle per la festa del venerdì: siamo in Quaresima, ed ogni settimana tocca ad una parrocchia differente portare a spasso il Cristo e vendere leccornie e giocattoli. Un tipo ha pure una riproduzione di E.T., che si alza e abbassa mentre tu cerchi di sparargli (forse, al dito illuminato) con il fucile per vincere un qualche premio; tutt’intorno, flipper, paperelle di plastica da pescare, ruote della fortuna, giostre per i più piccini... Fa freschetto, però, e dato che tutto comincerà a funzionare veramente l’indomani me ne torno alla Casa Argentina e, dato che comincio un po’ a soffrire di nostalgia per il cibo italiano, mi organizzo una cena con alcune cose dai negozi vicini e una pasta all’aglio fatta con il cibo abbandonato da qualcuno che se nè già andato... niente male, forse l’aglio è un po’ troppo soffritto, ma solo il pensiero mi rianima il cuore (e lo stomaco).
Arriva il venerdì, e con un altra partenza abbastanza prestina vado a San Francisco El Alto, dove si svolge il mercato settimanale. A differenza di quello di Chichicastenango, si tratta di un mercato più locale e meno turistico, dove per intenderci si vendono coperte e badili e mmmmmuccchheeee: la spiazzo nella parte alta della collina è dedicato in gran parte alla vendita di animali, da cortile come le predette mucche e maiali e pecore ma non solo, dato che vi si trovano gatti, cani e pappagallini. Una festa di colori, e io che intenzionalmente non ho portato soldi per comprare me la godo girando, parlando, fotografando... In un paio d’ore però ho visto tutto, quindi decido di proseguire lungo la stessa strada e arrivare a Momostenango, il villaggio successivo (a mezz’ora di strada, per intendersi).
Momo è, tutt’ora, la capitale spirituale maya del Guatemala: quando gli spagnoli arrivarono, scoprirono che c’erano una capitale politica (Santa Cruz del Quiche) ed una spirituale, ma si accanirono solo sulla prima, lasciando intatta la seconda. Il motivo che mi porta qui non è però il modo di vivere, ancora legato al calendario Maya ed alle particolarità di ogni giorno, ma i Riscos, delle colonne di fango protette da formazioni cristalline sulla loro cima e visibili poco prima di entrare nel villaggio. Ricordano un po’ le piramidi di Segonzano, in Trentino, anche se non sono altrettanto alte o altrettanto protette, a quel che vedo: persino una scolaresca delle elementari vi si sta arrampicando, e a quanto pare i vicini ogni tanto ne buttano giù una giusto per allargare il proprio giardino... mi sa che non dureranno ancora per molto, purtroppo.
Torno in paese, e vi scopro la pace: ai bordi del parco, seduto su dei gradini, ascolto la musica per una volta tanto non assordante che arriva da una bancherella e guardo la gente passare, senza alcuna fretta loro o io. Ci godiamo il calduccio, il sole, gli uccelli che cinguettano; gli amici si trovano a parlare, i compagni di scuola ridono, le signore guardano i loro bambini giocare... sembra un’oasi di pace, forse perché il turismo si spinge raramente fino a qui, tutto occupato con le sue "missioni di volontariato" in Quetzaltenango...
Viene però il tempo di tornare, e con un bus diretto raggiungo Xela, dove vado a cena in un ristorantino che ho scoperto e di cui mi sono invaghito, seminascosto all’interno di un chiostro e con delle ottime insalate (che fan parte di un pasto completo, non pensiate che sia diventato un bruco!); poi, torno alla pensione a preparare lo zaino cercando di reinserirvi alla meglio tutti i souvenir, ché domani si passa di nuovo il confine!
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inserito il 02/03/2012
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