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Santiaguito, che 'tte fumi?

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Quetzaltenango è uno di quei nomi che non vorreste dover ripetere rapidamente; ecco perché la maggior parte degli esseri umani la chiamano Xela (pronunciato Scela). E’ anche la seconda città del paese, e a quanto pare ha avuto in passato la speranza di diventare la capitale o, comunque, la più importante del Guatemala, tanto è vero che in occasione di una catastrofe naturale che uccise alcune migliaia di persone il sindaco locale negò ufficialmente l’avvenimento, temendo che la propria città potesse perderne in prestigio (ovviamente lui perse il posto, in seguito).

Ed è, a quanto pare, il centro magnetico per tutti coloro che si mettono in testa di fare del volontariato, da queste parti. Purtroppo, tra le buone agenzie e progetti, ce ne sono un sacco che si divertono a spennare i polli, chiedendo loro non solo di fare il lavoro per cui sono venuti (o altro, a volte) ma anche di pagare una quota settimanale a volte abbastanza alta... bah, contenti loro...

Io arrivo in bus, diretto, che passa a prendermi giusto fuori dall’hotel di Chichicastenango. E, attraversato il caos di uno dei mercati comunali, che divide non si sa perché il punto di smistamento degli autobus dalla strada dove passono i mezzi locali che portano fino in centro, arrivo alla Casa Argentina, un posto raccomandatomi da varie persone, prevalentemente per il suo prezzo; e, in effetti, non ha molte altre attrattive: riesco, è vero, a pigliarmi un’ottima stanza ben soleggiata dato che il suo occupante è appena partito, e la stanza costa 35 quetzal al giorno (circa 3,5 euri), però metà delle lampadine nei bagni non ci sono o non funzionano, solo due docce hanno l’acqua calda e la cucina non reggerebbe neppure una videoconferenza con i NAS (aggiungiamo pure che, per risparmiare sul gas, da giorni pare non cambino la bombola, costringendo di fatto chiunque voglia scaldare qualcosa ad utilizzare la cucina della famiglia proprietaria del posto); e non parliamo degli sciamannati che di notte non trovano di meglio che chiamarsi ad alta voce da un lato all’altro della terrazza, perché non meritano neppure menzione.
Uno dei lati buoni, però, è che Quetzaltrekkers, compagnia di guide volontarie di buona reputazione, ha sede nella stessa struttura, quindi mi ci vuole un attimo a verificare che per il giorno dopo hanno in programma un’escursione al vulcano Santa Maria (causa della famosa catastrofe naturale di cui sopra, pare) con pernottamento in vetta, e solo un paio d’ore per decidere di iscrivermi (prima verifico un programma alternativa con un’altra agenzia, ma non hanno ancora date fisse trattandosi di un’escursione ben più difficoltosa - e pericolosa). Il centro città è vicino e abbastanza concentrato, o quanto meno lo sono le uniche attrattive degne di tale nome, quindi me lo giro nel famoso paio d’ore, rigorosamente senza macchina fotografica (non perché abbia qualche problema in più di quelli che già ha, ma solo perché ho deciso che oggi vago iperleggero).
Recuperto il necessario per prepararmi un buon piatto di nachos al supermercato, e torno alla maison a spignattare e, successivamente, mangiare.

La mattina dopo, senza alcuna fretta, essendo l’appuntamento alle 10, mi ritrovo con gli altri iscritti al tour e con le nostre due guida (una vera, ed una in prova); finiamo di riempire gli zaini con le cose che ci presta l’agenzia (nel mio caso, un piumino ben imbottito e una stuoia per il saccoletto) e con la nostra parte di attrezzatura e cibo comuni, e poi partiamo per andare a prendere il bus che ci porterà alle pendici del vulcano.

L’ascesa al Santa Maria, che di suo arriva a rispettabili 3772 metri sul livello del mare (anche se ovviamente la parte che ci è toccata è inferiore), risulta abbastanza semplice nella prima parte, in cui in un’ora lungo un sentiero che spesso si confonde con il letto di un torrente asciutto (al momento) raggiungiamo una sella verdeggiante dove pranziamo con quel tanto (o poco... propenderei per il poco) che è previsto. Poi, comincia la parte difficile, dove il gioco si fa duro ed i duri cominciano a sudare: 3 ore e mezza di ascesa, in molti punti assai ripida, che ti aiuti con le mani e con i denti e con la lingua e riprendi fiato ogni tanto perché ti sembra di morire o almeno questo è il segnale che i tuoi organi interni ti stanno inviando (e sei pure in testa al gruppo, per onestà intellettuale però formato da 2 maschi e 4 femmine di cui due svizzere che ti aspettavi se la cavassero meglio in montagna ma non è così)... almeno finché non vieni superato da vari guatemaltechi che, con scarpe o sandali e qualcuno persino a piedi nudi, sembrano divertirsti ad andare su e giù per la montagna, e allora ti dici: "accidempoli, però loro non hanno lo zainone" e così salvi la faccia. Che vi vanno a fare lassù, senza tende né altro? A quanto pare, si scopre arrivati in cima col fiatone, fanno ritiri spirituali, sotto una copertura di teli impermeabili e pregando il signore tutto il giorno (probabilmente, che non li faccia morire congelati). Perché FA FREDDO! Ed uno dei due cani che ci ha seguito fino alla cima lo conferma, decidendo di tornarsene giù. L’altra resta, mentre noi cerchiamo un posto per montare le tende sperando di trovarne uno protetto dal vento... niente da fare, son già tutti occupati dai "ritirati", così ci piazziamo in una sella in cui se non altro sembra che non tiri la stessa brocca che sulla cima (ach, poferi illusi!). Le guide tirano fuori, sotto un cielo straplumbeo, un fornello da campo e una pentola, in cui prima scaldiamo l’acqua per la cioccolata calda e poi riescono a stracuocere la pasta al pomodoro che rappresenta la nostra cena (!). Del motivo per cui siamo venuti quassù, fin’ora, neppure l’ombra: il vulcano Santiaguito, creatosi durante l’eruzione del 1922 all’interno di quello che era il cratere del Santa Maria autodistruttosi durante la terrificante esplosione del 1902, sicuramente sta sbuffando i suoi fumi e le sue ceneri, ma noi non riusciamo a vederlo a causa delle nubi. Arriva il buio, si leva il vento (alla faccia della sella protetta), e quindi ci rifugiamo nelle nostre tende. Tempo di mettersi il pigiama, chiudere le ottomila cerniere della tenda e imbozzolarsi nel saccoletto che toh, la guida ci chiama fuori perché le nubi si sono diradate e si intravede la vetta del Santiaguito, con un paio di bocche colorate dalla lava. Impossibile fare foto: le pile muoiono subito per il freddo, e poi è troppo buio... ma il rosso fuoco si vede bene (e no, una foto sono riuscita comunque a farla :)). Dopo un po’ veniamo vinti dalla temperatura, e torniamo al caldo (anzi: meno freddo). E’ una notte d’incubo: il vento soffia, io con due paia di calzini e di pantaloni e 2 magliette più il pile mi rigiro continuamente per cercare di prendere sonno, ma il freddo s’infiltra anche nella tenda...

Alle 5 e mezzo mi sveglio e vado a vedere l’alba. Il cielo è terso, ora, e Santiaguito sta sbuffando un filo di fumo, e così per un po’ di minuti; poi, improvvisamente, una serie di basse colonne di fumo si alzano contemporaneamente dal cratere, e poi una nuvola gigantesca viene eruttata insieme a cenere e, forse, pietre, innalzandosi verso l’alto. Vedo tutto da 1000 metri più su, il suono arriva solo dopo qualche secondo, è come un tuono lontano, ma è bellissimo. La nuvola viene portata via dal vento, e tutto sembra essere tornato come prima; ma, dopo una ventina di minuti, vai che si ricomincia, anche se in termini minori. Dopo un’oretta passata in contemplazione, raggiungo il resto della cricca alle tende, per la colazione; poi, rifatto lo zaino e smontata ed impacchettata la tenda, torno al mio punto di osservazione, dove vengo raggiunto di tanto in tanto dagli altri, che onestamente non paiono tanto presi dalla cosa, chissà, magari la passione per la geologia scorre forte in me a causa degli studi giovanili di mio padre...

Verso le 9 e mezza, cominciamo la discesa, che in meno di due ore e mezza (perché la prima parte è davvero dura, estremamente ripida anche vista dalla direzione opposta) ci riporta alla base, estremamente impolverati ma estremamente felici di ritrovare il caldo del sole. Torniamo alla Casa Argentina in un bus pieno di bambini che vanno a scuola per le lezioni del pomeriggio e ci guardano curiosi (ma non poi tanto, visto che non siamo né i primi né gli ultimi che vedranno da queste parti), e io nell’ordine vado a pranzo con le due svizzere, mi doccio, mi ridoccio e poi schiaccio un pisolino... ci voleva proprio (tutto)!

Nota bene:

Non c'era bisogno di Quetzaltrekkers (né di altre agenzie simili), per la verità , per questa escursione, nel senso che portandosi il materiale che serve il tutto si può fare anche da soli; sicuramente, non vale (in Guatemala) i 300 quetzal (30 euri) pagati, specie se la cena è una pasta scotta e le tende non sono in grado di fermare il vento; l'unico sollievo/ragione/motivo è che tutti i proventi finiscono in beneficienza per dei progetti solidali, quindi va bene così.

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inserito il 28/02/2012
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