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La principessa ed il monastero
Arequipa, città a detta dei peruviani (e dell'Unesco)particolarmente bella, è ricca di monumenti storici; è, in realtà molto differente da Puno, dove non c'è molto per cui rimanere ammirati e da dove, se si vuole vedere qualcosa, bisogna uscire in escursione in località come Sillustani, sorta di cimitero inca e preinca ricco di tombe id diversa forma e dimensioni (compresi delle specie di tronchi di cono rovesciati realizzati con pietre perfettamente tagliate), o Chiquito, nota per le decorazioni sulle soglie delle porte e per il cosiddetto Tempio della Fertilità, con le sue decine di falli di pietra che tanto attirano le velleità fotografiche dei turisti: con le sue case antiche, realizzate in pietra lavica (i vulcani che attorniano la città non sono infatti solo sorgente di preoccupazione...) biancastra e porosa, la sua bella Plaza de Armas dominata dalla maestosa cattedrale e le migliaia di taxi piccolissimi che come micromachine sciamano lungo le strade, ha più di una freccia al suo arco per trafiggere il cuore dei viaggiatori di passaggio
Le sue due meraviglie, però, sono la principessa dei ghiacci ed il monastero di Santa Catalina.
La prima è in realtà una mummia, conservata all'interno di un sarcofago trasparente a temperature sotto lo zero, per mantenerla nelle stesse condizioni in cui era rimasta negli ultimi 500 anni: solo un'eruzione aveva infatti sciolto le nevi perenni che la celavano dal giorno in cui era stata sacrificata dall'Inca nel corso di una cerimonia propiziatoria che l'avrebbe elevata al rango di divinità. Ora, la piccola Juanita (come è stata ribattezzata la giovane) resta testimonianza delle tradizioni e della grandezza di un popolo, circondata com'è nel museo costruito per lei dai finissimi oggetti e tessuti che erano stati deposti nella sua tomba, e il prezzo elevato (15 soles) per vederla vale, in fondo, la pena.
Altra cosa molto costosa (se si comparano i prezzi, come a mio parere bisognerebbe sempre fare, con la realtà locale) è l'ingresso al monastero di Santa Catalina (da Siena): restaurato quasi interamente (anche se recenti terremoti hanno aperto nuove prospettive di lavoro, oltre che nuove crepe nei muri), è stato aperto dopo 400 anni (!) al pubblico, che sciama numeroso tra i suoi corridoi ancora oggi in parte usati dalle monache di clausura. Si tratta di una vera e propria cittadella, labirintica con le sue mille celle, chiostri grandi e piccoli, scale che finiscono nel nulla (o spariscono sotto quintali di mattoni e cemento), cucine annerite per preparare immacolate ostie e dipinti superbi nella pinacoteca e sulle arcate dei portici. Mi ci son volute ben 3 ore e mezza per girarlo tutto (almeno credo...), accompagnato da musica classica diffusa da altoparlanti nascosti con perizia e curioso di seguire ogni singolo passaggio. Unico cruccio: non poter rientrare con lo stesso biglietto nel tardo pomeriggio, per annaffiarsi della luce rossastra del tramonto sui vulcani da uno dei tanti tetti del complesso.
Le sue due meraviglie, però, sono la principessa dei ghiacci ed il monastero di Santa Catalina.
La prima è in realtà una mummia, conservata all'interno di un sarcofago trasparente a temperature sotto lo zero, per mantenerla nelle stesse condizioni in cui era rimasta negli ultimi 500 anni: solo un'eruzione aveva infatti sciolto le nevi perenni che la celavano dal giorno in cui era stata sacrificata dall'Inca nel corso di una cerimonia propiziatoria che l'avrebbe elevata al rango di divinità. Ora, la piccola Juanita (come è stata ribattezzata la giovane) resta testimonianza delle tradizioni e della grandezza di un popolo, circondata com'è nel museo costruito per lei dai finissimi oggetti e tessuti che erano stati deposti nella sua tomba, e il prezzo elevato (15 soles) per vederla vale, in fondo, la pena.
Altra cosa molto costosa (se si comparano i prezzi, come a mio parere bisognerebbe sempre fare, con la realtà locale) è l'ingresso al monastero di Santa Catalina (da Siena): restaurato quasi interamente (anche se recenti terremoti hanno aperto nuove prospettive di lavoro, oltre che nuove crepe nei muri), è stato aperto dopo 400 anni (!) al pubblico, che sciama numeroso tra i suoi corridoi ancora oggi in parte usati dalle monache di clausura. Si tratta di una vera e propria cittadella, labirintica con le sue mille celle, chiostri grandi e piccoli, scale che finiscono nel nulla (o spariscono sotto quintali di mattoni e cemento), cucine annerite per preparare immacolate ostie e dipinti superbi nella pinacoteca e sulle arcate dei portici. Mi ci son volute ben 3 ore e mezza per girarlo tutto (almeno credo...), accompagnato da musica classica diffusa da altoparlanti nascosti con perizia e curioso di seguire ogni singolo passaggio. Unico cruccio: non poter rientrare con lo stesso biglietto nel tardo pomeriggio, per annaffiarsi della luce rossastra del tramonto sui vulcani da uno dei tanti tetti del complesso.
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Il giorno 19/06/2005, Daniele ha scritto...
Una Doncella (di Mario Vargas Llosa)
TIENE la edad de la Julieta de Shakespeare -catorce años- y, como ésta, una historia romántica y trágica. Es bellísima, principalmente vista de perfil. Su rostro exótico, alargado, de pómulos altos y sus ojos grandes y algo sesgados, sugieren una remota estirpe oriental. Tiene la boca abierta, como desafiando al mundo con la blancura de sus dientes perfectos, levemente salidos, que fruncen su labio superior en coqueto mohín. Su larguísima cabellera negra, recogida en dos bandas, enmarca su rostro como la toca de una novicia y se repliega luego en una trenza que baja hasta su cintura y la circunda. Se mantiene silente e inmóvil, como un personaje de teatro japonés, en sus vestiduras de finísima alpaca. Se llama Juanita. Nació hace más de quinientos años en algún lugar de los Andes y ahora vive en una urna de cristal (que, en verdad, es una computadora disimulada), en un ámbito glacial de 19°ree bajo cero, a salvo del tacto humano y de la corrosión.
Detesto las momias y todas las que he visto, en museos, tumbas o colecciones particulares, me han producido siempre infinita repugnancia. Jamás he sentido la emoción que inspiran a tantos seres humanos -no sólo a los arqueólogos- esas calaveras agujereadas y trepanadas, de cuencas vacías y huesos calcinados, que testimonian sobre las civilizaciones extinguidas. A mí, me recuerdan sobre todo nuestra perecible condición y la horrenda materia en que quedaremos convertidos, si no elegimos la incineración.
Me resigné a visitar a Juanita, en el pequeño museo especialmente construido para ella por la Universidad Católica de Arequipa, porque a mi amigo, el pintor Fernando de Szyszlo, que tiene la pasión precolombina, le hacía ilusión. Pero fui convencido de que el espectáculo de la calavera pueril y centenaria, me revolvería las tripas. No ha sido así. Nada más verla, quedé conmovido, prendado de la belleza de Juanita, y, si no fuera por el qué dirán, me la robaría e instalaría en mi casa como dueña y señora de mi vida.
Su historia es tan exótica como sus delicados rasgos y su ambigua postura, que podría ser de esclava sumisa o despótica emperatriz. El antropólogo Johan Reinhard, acompañado por el guía andinista Miguel Zárate, se hallaba, el 18 de setiembre de 1995, escalando la cumbre del volcán Ampato (6,380 metros de altura), en el sur del Perú. No buscaban restos prehistóricos, sino una visión próxima de un volcán vecino, el nevado Sabancaya, que se encontraba en plena erupción. Nubes de ceniza blancuzca y ardiente llovían sobre el Ampato y habían derretido la coraza de nieve eterna de la cumbre, de la que Reinhard y Zárate se encontraban a poca distancia. De pronto, Zárate divisó entre las rocas, sobresaliendo de la nieve, una llamarada de colores: las plumas de una cofia o tocado inca. A poco de rastrear el contorno, encontraron el resto: un fardo funerario, que, por efecto de la desintegración del hielo de la cumbre, había salido a la superficie y rodado sesenta metros desde el lugar donde, cinco siglos atrás, fue enterrado. La caída no había hecho daño a Juanita (bautizada así por el nombre de pila de Reinhard, Johan); apenas, desgarrada la primera manta en que estaba envuelta. En los veintitrés años que lleva escalando montañas -ocho en el Himalaya, quince en los Andes- en pos de huellas del pasado, Johan Reinhard no había sentido nada parecido a lo que sintió aquella mañana, a seis mil metros de altura, bajo un sol ígneo cuando tuvo a aquella jovencita inca en sus brazos. Johan es un gringo simpático, que me explicó toda aquella aventura con una sobreexcitación arqueológica que (por primera vez en mi vida) encontré totalmente justificada.
Convencidos de que si dejaban a Juanita a la intemperie en aquellas alturas hasta regresar a buscarla con una expedición, se corría el riesgo de que fuera robada por los saqueadores de tumbas, o quedara sepultada bajo un aluvión, decidieron llevársela consigo. La relación detallada de los tres días que les tomó bajar con Juanita a cuestas las faldas del Ampato -el fardo funerario de ochenta libras de peso bien amarrado a la mochila del antropólogo- tiene todo el color y los sobresaltos de una buena película, que, sin duda, más pronto o más tarde, se hará.
En los dos años y pico que han corrido desde entonces, la bella Juanita se ha convertido en una celebridad internacional. Con los auspicios de la National Geographic viajó a Estados Unidos, donde fue visitada por un cuarto de millón de personas, entre ellas el presidente Clinton. Un célebre odontólogo escribió: ojalá las muchachas norteamericanas tuvieran dentaduras tan blancas, sanas y completas como la de esta jovencita peruana.
Pasada por toda clase de máquinas de altísima tecnología en la John Hopkins University; examinada, hurgada y adivinada por ejércitos de sabios y técnicos, y, finalmente, regresada a Arequipa en esa urna-computadora especialmente construida para ella ha sido posible reconstruir, con una precisión de detalles que linda con la ciencia-ficción, casi toda la historia de Juanita.
Esta niña fue sacrificada al Apu (dios) Ampato, en la misma cumbre del volcán, para apaciguar su virulencia y a fin de que trajera bonanza a los asentamientos incas de la comarca. Exactamente seis horas antes de su ejecución por el sacrificador, se le dio de comer un guiso de verduras. La receta de ese menú está siendo revivida por un equipo de biólogos. No fue degollada ni asfixiada. Su muerte ocurrió gracias a un certero golpe de garrote en la sien derecha. Tan perfectamente ejecutado que no debió sentir el menor dolor, me aseguró el doctor José Antonio Chávez, que co-dirigió con Reinhard una nueva expedición a los volcanes de la zona, donde encontraron las tumbas de otros dos niños, también sacrificados a la voracidad de los Apus andinos.
Es probable que, luego de ser elegida como víctima propiciatoria, Juanita fuera reverenciada y paseada por los Andes -tal vez llevada hasta el Cusco y presentada al Inca-, antes de subir en procesión ritual, desde el valle del Colca y seguida por llamas alhajadas, músicos y danzantes y centenares de devotos, por las empinadas faldas del Ampato, hasta las orillas del cráter, donde estaba la plataforma de los sacrificios. ¿Tuvo miedo, pánico, Juanita, en aquellos momentos finales? A juzgar por la absoluta serenidad estampada en su delicada calavera, por la tranquila arrogancia con que recibe las miradas de sus innumerables visitantes, se diría que no. Que, tal vez, aceptó con resignación y acaso regocijo, aquel trámite brutal, de pocos segundos, que la trasladaría al mundo de los dioses andinos, convertida ella misma en una diosa.
Fue enterrada con una vestimenta suntuosa, la cabeza tocada con un arco iris de plumas trenzadas, el cuerpo envuelto en tres capas de vestidos finísimamente tejidos en lana de alpaca, los pies enfundados en unas ligeras sandalias de cuero. Prendedores de plata, vasos burilados, un recipiente de chicha, un plato de maíz, una llamita de metal y otros objetos de culto o domésticos -rescatados intactos todos ellos- la acompañaron en su reposo de siglos, junto a la boca de aquel volcán, hasta que el accidental calentamiento del casquete glacial del Ampato, derritió las paredes que protegían su descanso y la lanzó, o poco menos, en los brazos de Johan Reinhard y Miguel Zárate.
Ahí está ahora, en una casita de clase media de la recoleta ciudad donde nací, iniciando una nueva etapa de su vida, que durará tal vez otros quinientos años, en una urna computadorizada, preservada de la extinción por un frío polar, y testimoniando -depende del cristal con que se la mire- sobre la riqueza ceremonial y las misteriosas creencias de una civilización ida, o sobre la infinita crueldad con que solía (y suele todavía) conjurar sus miedos la estupidez humana.
TIENE la edad de la Julieta de Shakespeare -catorce años- y, como ésta, una historia romántica y trágica. Es bellísima, principalmente vista de perfil. Su rostro exótico, alargado, de pómulos altos y sus ojos grandes y algo sesgados, sugieren una remota estirpe oriental. Tiene la boca abierta, como desafiando al mundo con la blancura de sus dientes perfectos, levemente salidos, que fruncen su labio superior en coqueto mohín. Su larguísima cabellera negra, recogida en dos bandas, enmarca su rostro como la toca de una novicia y se repliega luego en una trenza que baja hasta su cintura y la circunda. Se mantiene silente e inmóvil, como un personaje de teatro japonés, en sus vestiduras de finísima alpaca. Se llama Juanita. Nació hace más de quinientos años en algún lugar de los Andes y ahora vive en una urna de cristal (que, en verdad, es una computadora disimulada), en un ámbito glacial de 19°ree bajo cero, a salvo del tacto humano y de la corrosión.
Detesto las momias y todas las que he visto, en museos, tumbas o colecciones particulares, me han producido siempre infinita repugnancia. Jamás he sentido la emoción que inspiran a tantos seres humanos -no sólo a los arqueólogos- esas calaveras agujereadas y trepanadas, de cuencas vacías y huesos calcinados, que testimonian sobre las civilizaciones extinguidas. A mí, me recuerdan sobre todo nuestra perecible condición y la horrenda materia en que quedaremos convertidos, si no elegimos la incineración.
Me resigné a visitar a Juanita, en el pequeño museo especialmente construido para ella por la Universidad Católica de Arequipa, porque a mi amigo, el pintor Fernando de Szyszlo, que tiene la pasión precolombina, le hacía ilusión. Pero fui convencido de que el espectáculo de la calavera pueril y centenaria, me revolvería las tripas. No ha sido así. Nada más verla, quedé conmovido, prendado de la belleza de Juanita, y, si no fuera por el qué dirán, me la robaría e instalaría en mi casa como dueña y señora de mi vida.
Su historia es tan exótica como sus delicados rasgos y su ambigua postura, que podría ser de esclava sumisa o despótica emperatriz. El antropólogo Johan Reinhard, acompañado por el guía andinista Miguel Zárate, se hallaba, el 18 de setiembre de 1995, escalando la cumbre del volcán Ampato (6,380 metros de altura), en el sur del Perú. No buscaban restos prehistóricos, sino una visión próxima de un volcán vecino, el nevado Sabancaya, que se encontraba en plena erupción. Nubes de ceniza blancuzca y ardiente llovían sobre el Ampato y habían derretido la coraza de nieve eterna de la cumbre, de la que Reinhard y Zárate se encontraban a poca distancia. De pronto, Zárate divisó entre las rocas, sobresaliendo de la nieve, una llamarada de colores: las plumas de una cofia o tocado inca. A poco de rastrear el contorno, encontraron el resto: un fardo funerario, que, por efecto de la desintegración del hielo de la cumbre, había salido a la superficie y rodado sesenta metros desde el lugar donde, cinco siglos atrás, fue enterrado. La caída no había hecho daño a Juanita (bautizada así por el nombre de pila de Reinhard, Johan); apenas, desgarrada la primera manta en que estaba envuelta. En los veintitrés años que lleva escalando montañas -ocho en el Himalaya, quince en los Andes- en pos de huellas del pasado, Johan Reinhard no había sentido nada parecido a lo que sintió aquella mañana, a seis mil metros de altura, bajo un sol ígneo cuando tuvo a aquella jovencita inca en sus brazos. Johan es un gringo simpático, que me explicó toda aquella aventura con una sobreexcitación arqueológica que (por primera vez en mi vida) encontré totalmente justificada.
Convencidos de que si dejaban a Juanita a la intemperie en aquellas alturas hasta regresar a buscarla con una expedición, se corría el riesgo de que fuera robada por los saqueadores de tumbas, o quedara sepultada bajo un aluvión, decidieron llevársela consigo. La relación detallada de los tres días que les tomó bajar con Juanita a cuestas las faldas del Ampato -el fardo funerario de ochenta libras de peso bien amarrado a la mochila del antropólogo- tiene todo el color y los sobresaltos de una buena película, que, sin duda, más pronto o más tarde, se hará.
En los dos años y pico que han corrido desde entonces, la bella Juanita se ha convertido en una celebridad internacional. Con los auspicios de la National Geographic viajó a Estados Unidos, donde fue visitada por un cuarto de millón de personas, entre ellas el presidente Clinton. Un célebre odontólogo escribió: ojalá las muchachas norteamericanas tuvieran dentaduras tan blancas, sanas y completas como la de esta jovencita peruana.
Pasada por toda clase de máquinas de altísima tecnología en la John Hopkins University; examinada, hurgada y adivinada por ejércitos de sabios y técnicos, y, finalmente, regresada a Arequipa en esa urna-computadora especialmente construida para ella ha sido posible reconstruir, con una precisión de detalles que linda con la ciencia-ficción, casi toda la historia de Juanita.
Esta niña fue sacrificada al Apu (dios) Ampato, en la misma cumbre del volcán, para apaciguar su virulencia y a fin de que trajera bonanza a los asentamientos incas de la comarca. Exactamente seis horas antes de su ejecución por el sacrificador, se le dio de comer un guiso de verduras. La receta de ese menú está siendo revivida por un equipo de biólogos. No fue degollada ni asfixiada. Su muerte ocurrió gracias a un certero golpe de garrote en la sien derecha. Tan perfectamente ejecutado que no debió sentir el menor dolor, me aseguró el doctor José Antonio Chávez, que co-dirigió con Reinhard una nueva expedición a los volcanes de la zona, donde encontraron las tumbas de otros dos niños, también sacrificados a la voracidad de los Apus andinos.
Es probable que, luego de ser elegida como víctima propiciatoria, Juanita fuera reverenciada y paseada por los Andes -tal vez llevada hasta el Cusco y presentada al Inca-, antes de subir en procesión ritual, desde el valle del Colca y seguida por llamas alhajadas, músicos y danzantes y centenares de devotos, por las empinadas faldas del Ampato, hasta las orillas del cráter, donde estaba la plataforma de los sacrificios. ¿Tuvo miedo, pánico, Juanita, en aquellos momentos finales? A juzgar por la absoluta serenidad estampada en su delicada calavera, por la tranquila arrogancia con que recibe las miradas de sus innumerables visitantes, se diría que no. Que, tal vez, aceptó con resignación y acaso regocijo, aquel trámite brutal, de pocos segundos, que la trasladaría al mundo de los dioses andinos, convertida ella misma en una diosa.
Fue enterrada con una vestimenta suntuosa, la cabeza tocada con un arco iris de plumas trenzadas, el cuerpo envuelto en tres capas de vestidos finísimamente tejidos en lana de alpaca, los pies enfundados en unas ligeras sandalias de cuero. Prendedores de plata, vasos burilados, un recipiente de chicha, un plato de maíz, una llamita de metal y otros objetos de culto o domésticos -rescatados intactos todos ellos- la acompañaron en su reposo de siglos, junto a la boca de aquel volcán, hasta que el accidental calentamiento del casquete glacial del Ampato, derritió las paredes que protegían su descanso y la lanzó, o poco menos, en los brazos de Johan Reinhard y Miguel Zárate.
Ahí está ahora, en una casita de clase media de la recoleta ciudad donde nací, iniciando una nueva etapa de su vida, que durará tal vez otros quinientos años, en una urna computadorizada, preservada de la extinción por un frío polar, y testimoniando -depende del cristal con que se la mire- sobre la riqueza ceremonial y las misteriosas creencias de una civilización ida, o sobre la infinita crueldad con que solía (y suele todavía) conjurar sus miedos la estupidez humana.
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inserito il 12/06/2005
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