Expedition, giorno 38 - Ruse/Veliko Tarnovo
Piove come non ha mai piovuto prima. O, almeno, così mi pare, mentre percorro i centoventi chilometri che ci portano da Ruse alla antica capitale bulgara di Veliko Tarnovo.
E sì che ieri Ruse ci aveva accolto con un po’ di nuvole ed un bel po’ di vento, ma niente che facesse pensare ad una giornata così. E’ un ben triste benvenuto in un paese che non avevo mai visitato prima (ho raggiunto quota 3 per quest’anno, e tra qualche giorno la Turchia innalzerà la media), ma soprattutto faticoso. Perché la pioggia è fredda, e il vento soffia raramente a favore, più spesso lateralmente. Lungo le strade di campagna, perché la Bulgaria che vediamo per il momento è, principalmente, campagna, filari di alberi fanno un po’ da schermo, ma l’occasione buco permette al vento di spingerti in mezzo alla strada, mentre incessanti le gocce d’acqua ti cadono addosso, ti bagnano, ti infradiciano. Hai voglia di metterti la giacca a vento o i guanti... non c’è schermo sufficiente. Ross viaggia intabarrato in qualcosa che probabilmente solo Fogar usava al Polo Nord, ma prende freddo lo stesso, e lo squaraus è in agguato. Peter, invece, non conosce ancora l’utilità delle cuffie da doccia, che stanno sui caschetti riparando un po’ la testa; gli cedo la mia di scorta, è felice, io un po’ meno quando una folata più forte delle altre mi porta via la mia e non ho con che sostituirla. Mi accodo a Jane e Joe, che filano come treni, e solo dopo una ventina di chilometri si decidono a fermarsi un po’ per un caffè che individuo al volo (ché qui è tutto scritto in cirillico, essendo in realtà il primo paese in cui tale alfabeto ha attecchito, e quindi è difficile riconoscere le scritte sui negozi); la signora che manda avanti la baracca tenta di negare l’esistenza stessa della toilette, ma viene puntualmente sbugiardata da un’avventore che si rende conto della nostra necessità, e le tocca cedere la chiave della porta magica.
Ripartiamo, mi fermo un attimo per infilare il cappuccio del k-way sotto il casco e li perdo di vista, e così sono solo.
Continuo a pedalare, per colline e lunghi tratti quasi piani, sotto un’acqua che disturba. Le mie mani sono rincoglionite, altro che "comfortably numb", e quando devo telefonare a Paola impiego un minuto ad estrarre il telefono dalla tasca dietro la schiena ed un altro per richiamare il numero dalla rubrica, pigiando un tasto alla volta ogni dieci secondi circa. Una baracca al limitare di un bosco, con un semplice porticato che copre un paio di tavoli e delle panche mi da un po’ di riparo, e riesco a mangiare i panini che ci hanno dato all’hotel; il wafer cioccolatato finale è una manna, non scalda ma è come se lo facesse.
Mi rimetto in strada, la pioggia non accenna a smettere. E son chilometri. Attraverso una città piena di persone in uniforme militare, un imponente monumento in puro stile celebrativo sovietico con tanto di uomini proiettati verso il futuro con le armi sguainate e una simil bandiera avvolta attorno ad una simil asta attirano la mia attenzione.
Poi, improvvisamente, la pioggia come era arrivata smette; ma tanto, ormai, le scarpe sono zuppe, per non parlare delle mani, o dei pantaloncini corti (meglio quelli dei pantaloni lunghi, la pelle è più impermeabile)... ultimi pezzi di strada, Rick sta tornando indietro con il furgone per recuperare la moglie ed eventuali altri, un paio di salite terribili (dopo una giornata così!) e arriviamo alle falde del colle dell’antico castello, girandogli attorno e inerpicandoci per strade acciottolate fino all’hotel.
In camera ho la vasca da bagno... non me la faccio scappare, e mi ci ammollo. Per ritemprarmi, come una matita.
Domani giorno di riposo, anche se ci saranno le bici da controllare e pulire. E mancheranno solo 7 giorni ad Istanbul.
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inserito il 21/09/2012
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